La cultura classica negli ultimi secoli ha avuto fortune alterne, ma come tenterò di spiegare in questo contributo, rappresenta sicuramente una base solida per lo sviluppo della nostra cultura e offre valide prospettive ai giovani per l’acquisizione di ulteriori conoscenze e competenze, oggi sempre più necessarie nell’evoluzione della Net Economy e della Knowledge Society.



Come ha sostenuto recentemente Umberto Eco, “tutti sappiamo che, per dirla in parole povere e con inevitabili anglicismi, il futuro sarà sempre più dominato dal “software” a scapito dello “hardware”, ovvero dalla elaborazione di programmi più che dalla produzione di oggetti che ne consentono l’applicazione. Steve Jobs è diventato quel che è diventato non perché ha progettato degli oggetti che si chiamano computer o tavolette (che ormai li costruiscono i paesi del Terzo mondo) ma perché ha ideato programmi innovatori che hanno reso i suoi computer più efficienti e creativi di quelli di Bill Gates.



Quindi, anche nel mondo della tecnologia, l’avvenire è di chi sappia ragionare in modo da inventare programmi. E si dà il caso che chi abbia fatto una tesi di logica formale, di filologia classica, di  filosofia, abbia allenato una mente più adatta a inventare programmi (che sono materia del tutto mentale) di chi abbia studiato come fabbricante di “ferraglia”. Naturalmente conosco laureati in ingegneria che sanno inventare ottimi programmi ma che, appunto e guarda caso, hanno anche un’ottima cultura umanistica, e non di rado hanno studiato bene il loro latino e il loro greco al liceo”.



Del resto, lo stesso Platone a proposito della conoscenza nella Repubblica ricorda l’importanza delle scienze ed enumera cinque discipline matematiche: l’aritmetica, cioè l’arte del calcolo, la geometria come scienza degli enti immutabili; l’astronomia come scienza del movimento dei cieli; la musica come scienza dell’armonia. Queste discipline costituiscono la propedeutica della filosofia: esse preparano il filosofo alla scienza suprema, la dialettica, la scienza delle idee.

In atre parole, possiamo affermare che il futuro è certamente di chi sappia con mente agile unire le “due culture” umanistica e scientifica e per raggiungere questo obiettivo la conoscenza dei classici ha un ruolo fondamentale.

Ma i classici hanno un ruolo essenziale nel campo delle scienze sociali, dove si sviluppa la mia attività didattica e di ricerca, come il diritto e la giustizia, la politica, ma anche l’etica e l’economia. A questo proposito, come sostiene Aristotele, nel Libro V sull’etica, “La giustizia è la virtù più efficace, e né la stella della sera, né quella del mattino sono così meravigliose, e citando il proverbio diciamo: nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola. Ed è una virtù perfetta al più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri e non soltanto verso se stesso”.

Aristotele individua due grandi tipologie di giustizia: quella distribuiva, che ha il compito di corrispondere riconoscimenti e/o beni ai componenti della comunità; e quella correttiva, che si propone di rendere più equa ed accettabili i vantaggi e gli svantaggi che caratterizzano i rapprorti sociali e contrattuali tra le persone della stessa comunità.

Dal concetto di giustizia prende corpo e si struttura il diritto, articolato in diritto privato e diritto pubblico. Esso si considera diritto legittimo, quando è regolato da norme statale, mentre ci si riferisce al diritto naturale, quando è retto da leggi intrinseche della natura, “ciò che ha la stessa forza dappertutto ed è indipendente dalla diversità delle opinioni”.

Ma la capacità del pensiero di Aristotele di essere sempre attuale è da ricercare nella sua definizione di equità, infatti, delineandone il concetto egli sostiene che: “è la rettificazione della legge là dove si rivela insufficiente per il suo carattere universale”. Sostiene che in quanto il giusto e l’equo possono essere considerati la stessa cosa, ma l’equo ha un valore maggiore, poiché la legge nella sua universalità potrebbe essere soggetta ad errore.

L’equo, dunque, è un concetto e una “procedura” che si applica quando si intende perseguire la “giustizia massima” e non si vuole commettere un sopruso derivante da un’applicazione rigida – oggi diremmo burocratica o restrittiva –  dalla legge.

Infatti, nel dibattito sul ruolo e sulla finalità della politica, negli ultimi due secoli si è discusso molto di giustizia e delle modalità più utili per edificare una società giusta o per alcuni “più giusta”.

Sulla scena politica e nel dibattito pubblico attivato dai filosofi della politica e dai politologi, dagli economisti, dai giuristi e dai sociologi si sono confrontati due grandi ideologie, quella che si ispira alla libertà e quella che, invece, si richiama alla eguaglianza. Nel corso del Novecento abbiamo assistito al fallimento di entrambe le prospettive, che si sono cristallizzate in “ideologie” e hanno teso a giustificare lo status quo. Infatti, sia il funzionamento del libero mercato senza regole, sia la pianificazione estrema dell’economia e delle relazioni sociali dei paesi totalitari hanno prodotto risultati insufficienti.

Ora la strada da intraprendere potrebbe ripartire proprio dal concetto di equità e su questo argomento Alaine Touraine, in modo molto chiaro e perentorio, sostiene che: «L’equità è l’eguaglianza delle opportunità, la quale presuppone misure a favore di chi è svantaggiato: e richiede in particolare la volontà di combattere il dualismo sociale e la dissoluzione culturale. L’eguaglianza, invece, non è principio d’organizzazione sociale, quando lo diventa, ciò accade per imporre alla popolazione il potere assoluto di uno Stato» . Sempre Touraine, in merito al ruolo esercitato dalle istituzioni nel sostenere una politica di eguaglianza, ricorda che: «Essa non può essere messa in pratica attraverso misure di livellamento o di standardizzazione [delle azioni degli attori], ma solo attraverso un’azione volta specificamente contro gli effetti dell’ineguaglianza sociale: eguaglianza ed equità sono complementari, ma solo la loro distinzione assicura il legame fra l’eguaglianza e la democrazia».

A questo proposito una riflessione utile potrebbe partire proprio dall’analisi dell’esplosione dell’attuale crisi finanziaria americana che ha investito l’economia globale, come direbbe Max Weber: una crisi amplificata dal non rispetto dell’etica della responsabilità istituzionale, professionale e personale. Infatti, l’ingiustizia è divenuta di dominio pubblico mondiale, quando sono stato rese note le notizie relative al fatto che i dirigenti delle grandi banche che hanno portato alla rovina i loro clienti avevano stipendi da milioni di dollari e con il fallimento in corso si erano assegnati bonus incredibili.

In realtà, di fronte a questi comportamenti ingiustificabili il premio Nobel per l’economia Kenneth Galbraith nel suo famoso saggio sulla Storia della economia, citando Aristotele, ricorda che già nell’antica Grecia: “ Dopo aver identificato la natura della moneta e della coniazione, Aristotele procede a considerare l’accumulazione di denaro, che nella sua forma pura trova detestabile: gli accumulatori di denaro fanno di tutte le facoltà e arti dell’uomo puri “mezzi per procurarsi ricchezze nella convinzione che sia questo il fine e che a questo fine deve convergere ogni cosa”. Come nel caso della sua posizione sull’usura, quest’osservazione di Aristotele ha conservato la sua validità nel corso dei secoli. Un notevolissimo esempio moderno dell’osservazione aristotelica è indubbiamente offerto dal giovane finanziere che subordina ogni sforzo e coscienza personale al frutto pecuniario, e su questa misura ogni risultato personale. Forse a Wall Street bisognerebbe leggere ancora Aristotele”.

L’economia, dunque, per crescere sana ha bisogno di comportamenti etici, di fiducia e di rispetto delle leggi, delle istituzioni e delle persone (azionisti, clienti, collaboratori, fornitori) .

E a questo proposito del rapporto tra etica ed economia è necessario ricordare l’impressionante attualità della massima di Luigi Sturzo, con la quale sostiene che: “L’economia senza etica è diseconomia”.

Questa verità dovrebbe indurre comportamenti economici e professionali più coerenti, poiché nel nuovo scenario economico globale l’impresa svolge certamente una funzione produttiva, ma assume sempre più anche una funzione di Responsabilità sociale, di accountability nei confronti di tutti i suoi stakeholders, così come dovrebbero fare le stesse pubbliche amministrazioni, a partire dalla scuola e dall’università.

Si tratta di istituzioni che hanno come mission istituzionale il miglioramento dei processi, dei metodi e dei risultati educativi, verso una logica di sempre maggiore personalizzazione, in una prospettiva di lifewide learning. Processi che dovrebbero premiare il merito e garantire pari opportunità di partenza, che non si rivolgono ad uno studente medio,generico e indistinto, per questo inesistente, ma a coloro che hanno lacune da colmare e/o quelli che possono raggiungere livelli di eccellenza. Per queste ragioni il sistema dell’education nell’identificare la sua nuova mission strategica non dovrebbe porsi il solo obiettivo di fornire a bravi professionisti o operai quell’insieme di conoscenze e competenze necessarie per far fronte alla forte dinamicità del mercato del lavoro, ma  soprattutto quello di formare buoni cittadini, rispettosi delle leggi e animati da un alto senso civico da porre al servizio della comunità di appartenenza. 

In definitiva, la cultura classica rappresenta uno strumento fondamentale di conoscenza che offre ai giovani la possibilità di formarsi, crescere e confrontarsi con i concetti chiave che caratterizzano il percorso euristico del nostro Osservatorio e potrebbero orientare il futuro del nostro sistema educativo: autonomia, responsabilità, attenzione all’altro e ricerca del dialogo.

Infatti, a proposito di questi concetti, come faceva notare Emone a Creonte nell’Antigone di Sofocle: “anche altri potrebbero avere ragione […] Non portare dentro di te un solo pensiero, non credere che soltanto quello che tu dici è giusto e nient’altro. Chi crede di essere l’unico a pensare, di avere animi e parole impareggiabili, si rileva vuoto quando gli si guarda dentro. Per quanto un uomo sia saggio, non è vergogna imparare molte cose, ed essere flessibili […] è giusto anche imparare dalle parole degli altri, quando dicono cose giuste”.

Dunque, si possono sempre imparare cose nuove nel corso della vita e  si può imparare da tutti i nostri interlocutori, compresi quelli con i quali pensiamo di non dover condividere nulla o “quasi nulla”.

Una verità che mette in evidenza lo stesso Aristofane nella commedia “Gli uccelli” sostenendo che: “potria pur dai nemici imparar qualcosa il saggio”.

Guardando al futuro e partecipando consapevolmente alla sua realizzazione, ritengo sia necessario un impegno in prima persona nello sviluppo di un’economia non subordinata al dominio della tecnologia o al culto della ricchezza materiale e una società basata su un paradigma antropocentrico, che ama e favorisce la ricerca e la conoscenza, in vista dell’avvento di un nuovo umanesimo.

In questa prospettiva di ricerca e di dialogo, Platone nell’Apologia di Socrate, ci ammonisce ricordando che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta, e scrive una frase lapidaria: “… un’esistenza priva di curiosità (ricerca della conoscenza) non è umana vita”.