Nelle ultime settimane si è parlato spesso del lavoro di analisi compiuto dall’Invalsi sui temi di italiano dell’esame di maturità 2010. Le competenze linguistiche dei nostri ragazzi, in particolare quelle di scrittura, sono state impietosamente analizzate, e la situazione è abbastanza drammatica. In un’ottica ingenua di “Due culture”, si potrebbe pensare che questa debolezza di competenza linguistica sia quasi inevitabile, al giorno d’oggi, in ragazzi abituati a comunicare in modo frammentario e attraverso supporti tecnologici che facilitano contatti per i quali la scrittura ha un ruolo marginale. Forse qualcuno pensa che questa debolezza sia compensata da un aumento di capacità sull’altro fronte – ad esempio, sia compensata globalmente dalla grande dimestichezza con l’uso della tecnologia, o con una maggiore attitudine a un pensiero più strettamente scientifico.



Ahimè non è così. Al di là degli errori di ortografia, delle manifestazioni di ignoranza letteraria o delle ingenuità ideative, quello che ha più colpito molti commentatori è stata la povertà di organizzazione del pensiero che, alla fine, si percepisce dietro questa mancanza di competenza linguistica. Non si tratta solo di una percezione, e sempre l’Invalsi ce ne fornisce le prove con il lavoro di analisi compiuto sui compiti di matematica degli stessi studenti, raccolti durante la maturità del 2010.



Il compito di matematica, dice la normativa, deve tra l’altro permettere di valutare le capacità logico-argomentative dei ragazzi. Non è certo una cosa facile; come si può concretamente fare? Con uno schema parallelo a quello utilizzato per il compito di italiano (in qualche caso “traducendo” i medesimi indicatori) si è cercato di rilevare come queste capacità si esplicitano attraverso la costruzione di un discorso matematico, l’organizzazione delle idee, l’utilizzo delle informazioni e la loro elaborazione mediante gli strumenti specifici del linguaggio della matematica.



Il risultato non è certo inatteso. I compiti di italiano ci dicono che i ragazzi non riescono a usare la lingua italiana per collegare, saldare, ordinare le idee e le esperienze; con una dinamica assolutamente parallela, i compiti di matematica ci dicono che non riescono a usare il linguaggio matematico (e il linguaggio naturale) per collegare, ordinare le informazioni e i risultati parziali, costruire una argomentazione; verificare i propri risultati. 

Impiegano casualmente connettivi e quantificatori, non utilizzano mai esempi o controesempi a sostegno delle proprie argomentazioni, fanno raramente asserzioni dichiarative riguardo al proprio lavoro, non rispondono esplicitamente alle consegne poste ma delegano ai calcoli la risposta. Peraltro, molti di loro fanno calcoli inutili e mettono in campo un linguaggio tecnico-formale superfluo (e spesso scorretto). Abbondare in calcoli, utilizzare parolone simil-matematiche, sembra essere un modo per mascherare la mancanza di argomentazione.

Sul versante opposto, alcuni studenti riescono a produrre compiti di matematica “senza parole”, ma questo non va – ci si perdoni l’ironia – nella direzione del Formulario di Peano: indica piuttosto una visione della matematica in cui rientra solo la possibilità di fare calcoli e manipolazioni su numeri e espressioni simboliche.

Noi insegnanti, spesso, diciamo che le difficoltà dei ragazzi in matematica sono anche, a monte, difficoltà legate al testo: fin dalla scuola primaria sentiamo le maestre ripetere che i problemi dei bambini cominciano già nella fase di decodifica del testo (e le stesse prove Invalsi sono lì a documentarlo). Questo luogo comune nasconde una verità molto più profonda e ramificata di quanto si pensi. Anche la produzione di un testo matematico (anche di un testo prevalentemente simbolico) interagisce con i processi di apprendimento e con la comprensione. L’acquisizione di una adeguata capacità di comunicazione, e con essa l’utilizzo di diversi registri di mediazione, è parte integrante dell’apprendimento della matematica. Come per l’italiano, le carenze individuate dal lavoro dell’Invalsi non sembrano solo dovute a superficialità, ignoranza spicciola o appiattimento sulle specifiche di nuovi mezzi di comunicazione: mettono invece in luce una difficoltà trasversale di organizzazione del pensiero, comune al discorso linguistico e a quello matematico.

Questo suggerisce, peraltro, delle piste di lavoro agli insegnanti. Per migliorare i risultati dei ragazzi, ad esempio in vista del prossimo esame di Stato, probabilmente non è sufficiente aumentare la quantità di esercizi di calcolo di limiti o di derivate – forse non è neppure necessario, verrebbe da dire. Il problema non sta nella formula o regola in più o in meno che sono in grado di ricordare (alcuni esempi clamorosi dalle prove Invalsi di seconda superiore costringono alla riflessione): ovviamente ha un impatto molto maggiore sul loro risultato il come, il dove e il perché riescono a utilizzare la formula o la regola.

È proprio su questo che bisogna lavorare, magari (magari!) persino parlandone con il collega di italiano.