Cosa vuol dire valutare? Questa domanda, che di tanto in tanto riappare sui giornali e non solo a proposito dei voti, è all’origine del mestiere di insegnante che faccio da venticinque anni.

In questo arco di tempo i ragazzi sono cambiati, sono più fragili e le famiglie stesse in molti casi sono in difficoltà rispetto all’insuccesso dei figli: sono sempre più disarmate (e non solo rispetto alla scuola). 



Ma la risposta alla domanda che ho posto all’inizio non è cambiata nel corso di questi anni. Valutare significa educare, cioè accompagnare i ragazzi nel percorso di formazione che li porta a diventare adulti, a scoprire i propri talenti.

Dentro questo percorso le verifiche e i voti sono solo una tappa, certamente importante e fondamentale, poichè segnano il raggiungimento di obiettivi, i punti di lavoro, le carenze, ma assegnare un punteggio non è valutare.



Se è chiara questa differenza e se i ragazzi sentono che l’insegnante  è un loro alleato in questo cammino che hanno intrapreso, un maestro nel senso etimologico del termine (magis alter: il più grande tra i due), l’attribuzione dei voti non è più vissuta come un giudizio sul loro valore e sulla loro persona.

La chiarezza sul significato dei voti è fondamentale nel processo educativo: l’eccessivo buonismo è dannoso tanto quanto un rigorismo fine a se stesso.

Nel primo caso si impedisce una correzione reale, si impedisce che il ragazzo si metta al lavoro e provi a capire i passi che deve fare per affrontare le difficoltà, rimandando ad un altro tempo una reale presa di coscienza dei suoi problemi (quando arriverà all’università o cercherà un lavoro e, forse, sarà troppo tardi); nel secondo caso si scarica sul ragazzo il problema del suo insuccesso, lavandosene le mani, ci si nasconde dietro il rigore di un voto che, anziché misurare una prova, diventa un giudizio di valore sulla persona.



Nella mia scuola già da molti anni abbiamo stabilito di non attribuire alle prove di verifica orali e scritte una valutazione inferiore al 3, partendo da considerazioni molto vicine a quelle da cui ha preso le mosse l’intervento sul Corriere della Sera di Innocente Pessina, preside del Berchet di Milano. Tale scelta si è rivelata ragionevole in quanto il 3 esprime con grande chiarezza un livello di gravissima insufficienza senza dover attribuire voti inferiori. La chiarezza è un presupposto fondamentale per mettere al lavoro i ragazzi, ma da sola non basta: occorre un adulto che indichi quali passi fare per cominciare a superare le difficoltà.

L’insegnamento è un mestiere difficile, perché chiede un amore all’altro come unica strada che permette di valutare veramente. Io, come docente, posso promuovere, bocciare o indirizzare un ragazzo ad un corso di studi differente assumendo la responsabilità che questa decisione comporta,  solo se amo il suo bene e sono preoccupato che trovi la strada che gli permette di realizzare pienamente le sua umanità attraversi i talenti che ha. Senza questo orizzonte insegnare diventa un lavoro frustrante e alla lunga la nostra delusione si sfoga sui nostri studenti. Mentre aiutare dei ragazzi a diventare uomini e donne è il mestiere più bello del mondo e che, anche se non sempre riconosciuto in modo adeguato, non cambierei con nessun altro.