Mario Monti sperava nell’abolizione del valore legale del titolo di studio, ma gli italiani sembrano pensarla diversamente. Il Corriere della Sera ha anticipato i risultati di uno dei più importanti tra i 15 quesiti che fanno parte della consultazione online sul valore legale. “Come giudicate la necessità di possedere uno specifico titolo di studio per poter esercitare una determinata professione?”. Ben il 73% su scala nazionale ha risposto che la giudica positivamente, staccando, e di molto, la percentuale degli «abolizionisti». È la conferma che una forma di garanzia pubblica di vigilanza e controllo sulle attività di formazione è necessaria, dice Carla Barbati, docente di diritto amministrativo e membro del Cun (Consiglio universitario nazionale).
Insomma, per gli italiani il «pezzo di carta» dev’essere garantito dallo Stato, non si scappa.
Dicendo così, però, torniamo all’ambiguità insita nel valore legale, dalla quale bisognerebbe uscire. Io leggo quel dato in un altro modo: coloro che hanno partecipato alla consultazione ritengono necessaria una sorta di «garanzia pubblica» di vigilanza e controllo sulle attività di formazione. Credo che dietro quella percentuale così alta vi sia questo tipo di esigenza, connessa a ciò che definiamo convenzionalmente «valore legale».
Quella risposta, insomma, manifesta l’esigenza che il titolo di studio abbia basi solide. È così?
Sì. È la risposta al timore che non vi siano competenze certificate e adeguate, e al tempo stesso la preoccupazione che esse conducano egualmente all’esercizio di determinate professioni che vengono ritenute sensibili perché toccano interessi pubblici.
Sì al valore legale, dunque. Come è possibile conservare qualcosa che non esiste?
In effetti, parlare di abolizione del valore legale del titolo di studio di per sé è un non-problema, perché quell’espressione si riferisce ad un oggetto non definito e non identificabile: non esistono dal punto di vista giuridico leggi che chiaramente conferiscano questo supposto valore legale.
E allora?
Ciò che avviene è che la laurea vale a certificazione pubblica del possesso di conoscenze e di competenze, ma poi tutto il resto, quel che ne consegue e che normalmente si riconduce a questa etichetta, in realtà attiene alle modalità di accesso alle professioni, siano esse quelle del pubblico impiego, siano esse quelle regolamentate.
La consultazione online verteva sull’accesso alle pubbliche amministrazioni. È loro la «colpa» della svalutazione del titolo?
I bandi che le amministrazioni predispongono per l’accesso ai ruoli del pubblico impiego in senso allargato, oltre a chiedere un certo tipo di laurea, vanno oltre: assegnano un punteggio legato al voto conseguito in sede di laurea. È questo il punto esatto in cui si attribuisce al titolo di studio un valore in più, che non è solo precondizione d’accesso. Quel valore in più che «parifica» titoli di studio conseguiti con il medesimo punteggio, ma presso realtà accademiche anche molto diverse.
È il problema della differenza «reale» tra una laurea conseguita in un ateneo di prestigio, e la stessa laurea ottenuta in un ateneo di serie B. Come rivalutare il titolo?
Con un accreditamento serio. Occorre accertare la qualità dei percorsi di studio attraverso la verifica dell’esistenza effettiva dei requisiti minimi per poter rendere un servizio di qualità. Si prevede che sarà l’Anvur a farlo, operando per conto del ministero. Rimane il fatto che non è una cosa semplice.
Dove sta la difficoltà?
È una questione delicata, perché ci muoviamo sul terreno di autonomie costituzionalmente garantite – universitaria, didattica, della ricerca, – e quindi i requisiti minimi devono essere fissati in termini il più possibile oggettivi, freddi, tali da non interferire con la necessaria autonomia dell’ateneo. Occorre elaborare criteri che non vadano a compromettere o intaccare questi spazi di autonomia.
Ma in concreto quale forma dovrebbe assumere il lavoro dell’Anvur? Dirci quali sono le università migliori?
No, solo fissare l’«asticella» dei requisiti minimi. L’accreditamento, anche periodico, non è funzionale a decidere chi è il più bravo, ma a dire chi non può stare sul mercato. Oggi infatti abbiamo atenei che sono riconosciuti come tali senza avere le condizioni strutturali per esserlo. Una classifica tra l’altro sarebbe opinabile, pericolosissima se fatta da un soggetto centrale come l’Anvur, e potrebbe anche addurre complicazioni di tipo giudiziario.
Fatto l’accreditamento?
A quel punto le università sono libere, in base ai servizi che rendono, di aggiudicarsi i migliori studenti. Detto questo, dobbiamo anche confidare nel fatto che l’effettivo patrimonio di conoscenze di una persona emerge, e comunque viene verificato dal mondo delle professioni. Già oggi non si può dire, quindi, che tutte le lauree sono uguali.
Non per i privati, ma per il settore pubblico, sì.
In realtà, non tutti i laureati in giurisprudenza quando sostengono il concorso per l’accesso a una fascia dirigenziale hanno lo stesso tipo di rendimento: c’è un momento di verifica in cui si accerta il reale possesso delle conoscenze e delle competenze. Possono esserci delle difficoltà nella selezione, ma non si risolvono eliminando il cosiddetto valore legale del titolo; anzi, così facendo potrebbero perfino amplificarsi, perché si aumenterebbe il margine di discrezionalità delle commissioni. A meno che non si voglia prefigurare dei percorsi privilegiati per chi ha studiato in un certo ateneo… Se arrivassimo a questo, sarebbe il fallimento della capacità dello Stato di certificare i soggetti che operano nel settore.
Se lei fosse stata nel Consiglio dei ministri del 27 gennaio scorso, quando ci fu il dietrofront sull’abolizione del valore legale, che cosa avrebbe detto?
Avrei detto che il non assegnare un valore predeterminato ai punteggi o alla votazione finale conseguita nella laurea in un concorso pubblico, non è un punto di partenza ma il punto di arrivo di un percorso che deve passare prima dall’accreditamento, fatto di procedure che devono essere adeguatamente testate. Il problema non sta comunque solo nella Pa: c’è la grande questione di come gli ordini professionali si aprono agli accessi. Anche in questo caso occorrerebbe agire contestualmente.
Anche gli ordini professionali hanno contribuito a falsare il problema del valore legale?
Certo. La loro autorganizzazione è molto spesso obbediente ad una logica puramente difensiva, e non è detto che come tali siano sempre necessari… ciò dimostra ancora una volta che occorre agire su più piani: accreditamento delle università, criteri d’accesso a determinate professioni, agire sulla Pa con azioni di indirizzo perché i bandi vengano configurati in modo diverso.
I suoi «suggerimenti» all’Anvur?
L’Anvur è di fronte ad un compito difficile ed immane. Potrebbe forse agire dandosi dei tempi più lunghi, non rispetto agli adempimenti, quanto al valore e al peso richiesti dalle nuove valutazione, per evitare di produrre effetti distorsivi di difficile rimedio. In secondo luogo, è necessario che vi sia un’azione concertata tra l’agenzia e il ministero, che deve espletare il proprio ruolo di indirizzo per evitare che i primi esperimenti risultino troppo pesanti. Non dimentichiamo che siamo di fronte alla nostra prima esperienza di valutazione di questo tipo.
(Federico Ferraù)