Nel tentativo di contribuire al dibattito in corso sul valore dell’esercizio di traduzione, prendo volentieri le mosse dalla distinzione indicata nel suo articolo dal prof. Gobber tra plurilinguismo e capacità traduttiva: mentre possedere una competenza plurilingue è naturale (ragion per cui si può ben comprendere una lingua straniera anche senza riuscire a tradurla nella propria), saper tradurre è competenza che si acquisisce artificialmente, attraverso l’esercizio.



L’esperienza didattica in una classe di principianti del latino mi conferma nella convinzione che l’esercizio per imparare a tradurre – comunque lo si voglia avvicinare – è esigente. Vedo infatti studenti che, pur sapendo svolgere l’analisi logica di un breve brano con buona approssimazione, non producono poi una traduzione qualitativamente equivalente (anzi, ignorano nel tradurre la loro stessa analisi!); questo dimostra che la comprensione – prerequisito della traduzione – non è un sottoinsieme dell’analisi morfo-sintattica del testo. Al contrario, osservo pure situazioni in cui gli studenti presentano una traduzione fondamentalmente giusta, anche quando non abbiano svolto un’analisi minuziosa; ciò si verifica quando gli elementi portanti della frase e del testo sono loro chiari (verbi e soggetti innanzitutto, e cognizione del contesto). Mi pare pertanto sostenibile affermare che non esiste corrispondenza biunivoca tra la comprensione grammaticale del testo e la capacità di tradurre, nel senso che la prima non è condizione sufficiente perché vi sia la seconda.



Del resto, io stesso so per esperienza diretta che comprendere non implica necessariamente saper volgere nella propria lingua; di recente ho letto l’opera latina di un autore del VI sec. (Martino di Braga), che si intitola Formula vitae honestae: confesso che di primo acchito non saprei tradurre queste poche parole, e che però afferro fin da subito l’argomento a cui esse fanno riferimento. Infatti la banale traslitterazione “formula della vita onesta”, per chi voglia esser serio, non evoca se non echi automobilistici o di marketing (dalla Formula Uno alle varie formule anticalcare dei detersivi) e legalistici (che cosa vuol dire onesto? Non chiediamolo ai media…). Mi è invece d’aiuto pensare che honestus ha a che fare con honos/honor, che contiene l’idea di importanza (per qualcosa che si ha o che si fa), di stima e di rispetto; e che formula deriva forma, che indica l’aspetto (propriamente, il bell’aspetto) di qualcosa. Allora la nebulosa formula vitae honestae sarà qualcosa che riguarda un tipo di vita bella, e che merita rispetto; con ciò non è detto tutto, ma è già molto meglio della confusione iniziale. Mi ritrovo finora nella situazione di chi, pur non sapendo tradurre, non può però negare di avere compreso almeno parzialmente il testo.



Se poi, con qualche passaggio ulteriore, dovessi rischiare una traduzione (mi perdoni chi è più abile in materia), non mi dispiacerebbe dire che il tema dell’opera in questione è: “Il ritratto della vita onorevole”. Dopo una prima, approssimativa ma giusta, comprensione sono riuscito anche a tradurre in italiano. E adesso che lo so? Direi che, se a una prima lettura vedevo solamente le nubi che nascondevano un paesaggio, ora si è delineato chiaramente un contorno. Ammetto che dopo avere tradotto questo titolo sto meglio, perché so più chiaramente a che cosa vado incontro leggendo l’opera. Voglio dire che tradurre, pur essendo un’operazione limitata e non esaustiva nella comprensione di un testo, tuttavia non è una cosa indifferente, nel senso che fa la differenza, in meglio. Essa infatti permette di sottrarre all’indefinitezza le parole di un’altra lingua, o meglio di porle sotto una luce che le rende visibili a tutto tondo: un conto è avere chiaro il senso generale dell’espressione formula vitae honestae, altro è conoscerne il significato particolare, che identifico attraverso la mia lingua materna; traducendo (si intende: con cognizione di causa e in modo adeguato) si introduce quella differenza specifica che rende la mia comprensione del testo più profonda.

Tornando a riflettere sul tipo dello studente liceale medio, vien da domandarsi se il processo descritto possa valere anche per lui; io, tutto sommato, ho un’esperienza maggiore della sua in materia, una laurea e alcuni anni di insegnamento alle spalle… ma lui, potrebbe farcela a fare come me? Inversamente, io alla sua età ero in grado di ragionare così? Se devo essere franco, rispondo di no. Ritengo cioè che il metodo linguistico che conduce alla comprensione dall’interno di una lingua, e che contempla perciò il momento della traduzione come fase non esclusiva né iniziale, sia sostanzialmente valido, e che però esso sia assimilabile gradualmente, e non conduca sempre all’immediato successo. Benché la teoria sulla materia sia chiara e lineare, all’atto pratico il cammino di apprendimento di uno studente non tiene il passo con la stessa agilità; questo perché il tradurre – comunque ci si arrivi – presenta una sua oggettiva difficoltà. Non c’è da stupirsi se, pur guidando gli studenti con sapienza verso la traduzione, essa risulterà loro in certa misura un esercizio ostico. Che cos’ha dunque di speciale il fatto di tradurre?

Non voglio entrare ora in merito alla validità del metodo natura piuttosto che di quello tradizionale, sui quali si è scritto con perizia su queste pagine. Mi pongo piuttosto la domanda: che cosa accade quando uno studente liceale è all’opera nel tradurre? Ricordo con piacere il caso di un ragazzo alle prese col racconto di un mercante che – per scampare a una tempesta sul mare – promette alla divinità di rinunciare per sempre al commercio marittimo e di restare in terra; la sua traduzione diceva che il mercante sarebbe rimasto “sulla terraferma”. Questa resa italiana mi sembra bella, perché terraferma indica – più chiaramente ancora che non il pur giusto “terra” – l’opposizione tra il mare fluttuante e pieno di pericoli e il suolo, fermo e stabile. 

 

Per poter tradurre così non è stata sufficiente la conoscenza grammaticale del testo, ma anche una certa fantasia, termine col quale non intendo di certo l’invenzione arbitraria e infondata di qualcosa, ma – etimologicamente – la capacità di rappresentare le immagini, dando a esse un aspetto visibile. Io so che chi mi ha tradotto terra con “terraferma” ha colto il contesto di quella frase, cioè ha davvero capito il testo. Credo che il valore aggiunto della traduzione stia proprio nella sollecitazione a essere “fantasiosi”, cioè a dominare i vari livelli della conoscenza linguistica, per fare un passo in più, che presupponga e allo stesso tempo superi la conoscenza grammaticale, e tenda verso una definizione non equivoca delle parole. Ciononostante, tutti sanno poi che nella pratica scolastica il tradurre si trasforma facilmente in un tirare a indovinare da parte degli studenti; questo aspetto, però, rientra nella gradualità dell’apprendere, di cui si diceva prima.

In conclusione, mi sembra importante ribadire che l’esercizio di traduzione è solo uno dei possibili modi di incontro con un testo; nondimeno esso è un’attività altamente significativa, perché aiuta una comprensione critica. Mi spiacerebbe insegnare il latino impostando il corso solo sul tradurre, così come troverei davvero un peccato escludere del tutto la traduzione dal lavoro scolastico.

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