L’espansione della lingua inglese ha toccato anche gli atenei italiani, suscitando non poche polemiche. Il paese della lingua di Dante ha aperto le porte delle università all’idioma anglosassone e dal 2014 le lezioni del biennio specialistico e i dottorati, al Politecnico di Milano, si svolgeranno rigorosamente in inglese: messaggio forte e chiaro lanciato dal rettore Giovanni Azzone e rilanciato dal ministro dell’Università Francesco Profumo che è convinto che “poco alla volta diventeremo un paese normale”. Opinione non proprio condivisa da 234 docenti dell’ateneo milanese che, contro il parere del Senato accademico il quale ha prontamente approvato la proposta, hanno firmato un appello contro gli studi in lingua inglese. Fortemente contraria l’Accademia della Crusca che istituirà seminari a tema a fine aprile. IlSussidiario.net ha chiesto il parere di Gisella Langé, esperta di didattica della lingua e ispettore tecnico di lingue straniere del Miur-Usr per la Lombardia.



Come giudica l’iniziativa del rettore Azzone di introdurre lezioni solo in lingua inglese?

E’ un progetto positivo che permette agli studenti di utilizzare una lingua straniera con modalità diversificate e, a mio avviso, molto utili per uno sviluppo professionale per il loro futuro.

Si riferisce al fatto che possano raggiungere i livelli di conoscenza della lingua che hanno i loro colleghi europei, quindi più avvantaggiati per la ricerca di un lavoro all’estero?



Mi riferisco al fatto che possano usare la lingua a fini pratici e non semplicemente con meri scopi accademici: non trascurando, inoltre, il fatto che un miglior apprendimento in questo caso dell’inglese permetterà loro di trovare un impiego con molta più facilità.

Il ministro Profumo ha sottolineato che questo cambio di tendenza avverrà solo in alcuni atenei italiani. Non si corre il rischio di creare università di serie A o di serie B, come accade in America e in alcuni paesi anglosassoni?

Non penso sia questo il punto. Lo scopo è dar vita a università che hanno una maggiore attrattiva anche verso studenti che provengono dall’estero. Se ci saranno le giuste condizioni, si avvieranno sicuramente corsi, per così dire, di eccellenza, ma non mi sento di bollare i nostri atenei classificandoli in base a questo parametro. Anche un’ottima università che usa solo l’italiano come lingua veicolare per insegnare rimarrà, comunque, all’altezza di standard internazionali.



Il problema non rischia di spostarsi indietro, alle medie superiori o magari ancora prima, alla scuola dell’obbligo? I nostri istituti sono in grado di fornire un’infarinatura necessaria per affrontare questo tipo di lezioni in lingua?

Occorre tener presente che la proposta del ministro Profumo si rivolge alle lauree magistrali, cioè agli ultimi due anni del percorso universitario, quindi a studenti che hanno tre anni di studi alle spalle. Per ciò che riguarda licei, istituti tecnici o magistrali, la qualità di apprendimento è sensibilmente migliorata in questi anni: soprattutto grazie al fatto che i ragazzi vengono portati a conseguire certificazioni linguistiche internazionali. Tenendo poi presente che l’obiettivo dei nuovi licei, partiti con la Riforma del 2010, è quello di arrivare a livello B2, quarto di sei step su una scala istituita dal Consiglio d’Europa, per degli universitari con alle spalle già tre anni in ateneo affrontare letture in inglese non dovrebbe costituire un problema. Chi, invece, è rimasto indietro per vari motivi, dovrà rimboccarsi le maniche e lavorare di più.

Non pensa che in questo modo vengano trascurati idiomi come francese, tedesco o spagnolo, parlati correntemente in paesi confinanti al nostro?

Sarebbe senz’altro opportuno proporre non solo lezioni in inglese ma anche in altre lingue, in base alle competenze del docente che insegna la disciplina. La scelta fatta dal ministro parte dal fatto che l’inglese è la lingua più diffusa a livello internazionale e nel mondo del lavoro e, secondariamente, risulta utile per attirare un pubblico straniero: partire dall’inglese è la scelta giusta, sebbene, a mio avviso, si potrebbe in futuro insegnare alcune discipline in altre lingue. Indubbiamente, occorre prima mettere a fuoco le competenze del docente che andrà ad insegnare la propria materia in un idioma che non è il suo.

Moltissimi docenti del Politecnico hanno firmato un appello che annulli le richieste di Azzone e Profumo. Secondo lei, è giusto o vale la pena almeno di tentare l’esperimento?

Firmare una petizione di questo tipo significa rinunciare ad una grande possibilità e varrebbe la pena di tentare di insegnare in lingua inglese, almeno alcune porzioni di materia. Se, invece, si tratta di un problema di mancanza di competenze del corpo docente, occorrerebbe fare come nei licei e negli istituti tecnici, dove dal 2014 una materia dovrebbe essere insegnata interamente in lingua straniera.

Si riferisce al Clil?

Esattamente, per il Clil – acronimo di Content and Language Intagrated Learning – i criteri sono stati fissati in modo molto chiaro, coinvolgendo solo insegnanti che mostrino competenze metodologiche e didattiche adatte a questa disciplina. Poiché non si tratta solo di parlare in inglese ma, soprattutto, di utilizzare una metodica che  faciliti la veicolazione dei contenuti in un linguaggio straniero. Dunque, non solo una lezione puramente cattedratica ma che comprenda anche l’uso di nuove tecnologie, il lavoro di gruppo, il cosiddetto cooperative learning.

(Federica Ghizzardi)