Abbiamo letto con interesse l’articolo di Giovanni Cominelli L’ultima mossa della Cgil: usare il Pd per “smontare” l’Invalsi. Non poteva che essere così, vista l’importanza che anche noi assegniamo alla valutazione esterna e dato che chi scrive ricopre incarichi di responsabilità politica per il Pd milanese e lombardo.
La tesi di Cominelli più condivisibile è quella esplicitata alla fine del suo articolo: “[la valutazione esterna] era e resta un motore di spinta decisivo dell’intera costruzione del sistema nazionale di valutazione. Donde la necessità per le forze conservatrici di mettere acqua in questo motore”. Abbiamo qualche dubbio in più sul fatto che il “mandante” dell’operazione sia stata la Flc-Cgil, anche in considerazione del fatto che si tratterebbe di un intervento assai tardivo visto che alla Camera non c’è traccia di operazioni analoghe. Tra l’altro è noto che l’emendamento “acqua nel motore” è stato fortemente voluto (attraverso una petizione online che ha raccolto qualche migliaio di firme) da Rete Scuole e altri movimenti e associazioni nati per lo più come reazione alle inopinate scelte morattiane sul primo ciclo oppure con la calata – sempre sul primo ciclo – della furia iconoclasta dell’instancabile duo Gelmini-Tremonti. Non è oggetto di questo intervento, ma cogliamo l’occasione per sottolineare che ci piacerebbe si riflettesse di più su quanti danni indiretti hanno fatto quei due (ai quali va aggiunto anche il “simpatico” Brunetta) alla causa di chi si batte per il cambiamento di cui la scuola ha bisogno: hanno risvegliato gli istinti più deteriori e corporativi della categoria, hanno ringalluzzito la macchina burocratico-amministrativa di Viale Trastevere, hanno fornito argomenti solidissimi alle forze più conservatrici (quante volte ci siamo sentiti ripetere “se il cambiamento è questo, meglio lo status quo”!).
Poiché non vogliamo sottrarci alla questione principale sollevata dall’articolo e che chiama direttamente in causa il nostro partito, torniamo però subito al tema sollevato da Cominelli. Perché è vero che l’emendamento è stato nel frattempo trasformato in un più innocuo – e speriamo presto dimenticato – ordine del giorno senza che venisse nemmeno discusso in commissione, ma è anche vero che quell’emendamento è stato presentato ed era sbagliato, se non altro perché capace di prestare il fianco a critiche come quella che stiamo commentando. Non vogliamo sottrarci anche perché ci è chiaro che la domanda ineludibile è in estrema sintesi una sola: si può dire che per il Partito democratico la necessità di una valutazione sistematica – e quindi censuaria – delle scuole sia un dato acquisito, oppure no?
Anche qui potremmo cavarcela citando i documenti ufficiali, che aprono con nettezza ad un corpo ispettivo profondamente rinnovato sul modello dell’Ofsted e su Invalsi non lasciano spazio a dubbi, ma sarebbe troppo semplice e non è nostro costume eludere una discussione di merito; esponiamo quindi il nostro pensiero nel modo più chiaro possibile: tornare ad un Invalsi che fa test campionari sarebbe una scelta insensata, che riporterebbe le lancette dell’orologio a un decennio fa, tradendo un percorso di progressiva generalizzazione dei test fin qui condiviso dai governi di centrodestra come di centrosinistra. I test Invalsi rappresentano infatti una delle poche vere novità nel panorama scolastico italiano del dopo Berlinguer. Al momento attuale esse sono l’unico elemento di valutazione esterna capace di coadiuvare l’autovalutazione delle scuole italiane e costituiscono le fondamenta su cui sviluppare una seria cultura della misurazione dei risultati di sistema, basata su dati oggettivi e non su interpretazioni soggettive e impressionistiche.
La generalizzazione delle prove Invalsi, infine, sta aiutando a focalizzare il lavoro delle scuole sulle competenze fondamentali che un sistema di istruzione efficiente dovrebbe essere in grado di assicurare a tutti i suoi alunni, riducendo al contempo la tradizionale autoreferenzialità di ogni singolo istituto, costretto a confrontarsi su basi oggettive con i risultati raggiunti dalle altre scuole. Non a caso, l’articolo 8 del ddl 953, licenziato in Commissione VII alla Camera con il decisivo contributo del Pd, prevede l’istituzione di nuclei di autovalutazione in ogni autonomia scolastica, con il preciso mandato di lavorare in stretta collaborazione e sinergia con Invalsi e i suoi test.
Non sono tutte rose e fiori dalle parti di Invalsi: ci è chiaro ed è chiaro anche a Cominelli. Ad esempio sul fronte della progressiva autonomizzazione dal Miur e dalla politica, che è ben lontana dall’arrivare. Detto questo, però, le motivazioni profonde dell’emendamento poco o nulla hanno a che fare con queste preoccupazioni. Queste motivazioni sono fondamentalmente tre. Primo, l’idea che tra i compiti degli insegnanti non rientri quello della valutazione (e dell’autovalutazione) di sistema. Secondo, il timore che una rilevazione sempre più sistematica della scuola, con il coinvolgimento continuativo di intere classi di studenti, rafforzi le voci di quanti richiedono una valutazione esterna e trasparente del sistema scolastico, secondo la logica dell’accountability. Terzo, il curioso paradosso riassumibile nella formula “non si danno voti al nostro lavoro”. Un curioso paradosso, appunto, per cui il lavoro degli alunni si può e si deve valutare, mentre sarebbe disdicevole fare altrettanto con quello degli insegnanti e delle scuole. Anche se questo significa rinunciare a sapere se una scuola riesce a lavorare bene o è in difficoltà, se ha bisogno di essere aiutata a migliorare e in quali settori. E come se fosse irrilevante verificare come vengono spesi i soldi pubblici (anche) nella scuola italiana. Si parla quindi allo stomaco – giustamente molto irritato – degli insegnanti, per cercare di guadagnarne i favori. Brutto pensiero se riferito ai vari movimenti anti-Gelmini rimasti orfani della loro amata nemica, pensiero imperdonabile se avesse in qualche misura condizionato la scelta del Pd di sottoscrivere questo sciagurato emendamento, facendolo passare dai volantini di Rete Scuole agli scartafacci (speriamo) più seri del Senato della Repubblica.
Su questo crinale è più corretto collocare il dibattito interno al nostro partito, non tanto su quello tradizionale e un po’ stereotipato Partito-Sindacati. Una divisione peraltro trasversale alle “correnti” interne del partito e del sindacato. Da un lato c’è chi pensa che si debba assecondare la parte più stanca e spaventata della corporazione per riconquistarne il consenso; salvo poi – una volta al governo – tornare a fare (o non fare) a prescindere da essa, agendo secondo dinamiche estranee al merito dei problemi che attraversano la scuola italiana (le alleanze, il contesto, le emergenze…). Dall’altro chi pensa che non potrà esserci nessuna riforma della scuola senza il coinvolgimento di tutti gli stakeholders: lo Stato e gli Enti locali, i dirigenti, gli insegnanti, gli studenti e loro famiglie.
E che una riforma della scuola non potrà realizzarsi senza la convergenza, almeno su alcuni punti fondamentali, delle forze politiche riformiste e moderate, pena l’impossibilità di uscire dal circolo vizioso delle riforme passate, di volta in volta smontate dal ministro successivo. Per questo abbiamo utilizzato gli anni di opposizione (e vogliamo utilizzare l’anno che ci separa dalle elezioni) per creare consenso attorno alla necessità del cambiamento, facendo leva su chi ancora nella scuola crede nella possibilità di un riscatto.