Caro direttore,

vorrei inserirmi nell’interessante dibattito avviato dalla vostra testata sul valore della traduzione dal latino e dal greco, per raccontare l’esperienza che negli ultimi due mesi ha visto me e altri studenti della Facoltà di Lettere classiche dell’Università di Milano coinvolti in un entusiasmante esperimento di traduzione dal greco.



Alcuni miei colleghi ed io, affascinati dalla tragedia e dalla commedia greca, lo scorso anno abbiamo assistito alle rappresentazioni teatrali proposte dall’Inda (Istituto Nazionale del Dramma Antico) al Teatro greco di Siracusa. Per la prima volta, ci siamo accorti di quanto una traduzione ben fatta possa cambiare le cose, e di quanto traduzione e rappresentazione scenica si compenetrino formando un inscindibile binomio. Una traduzione pensata per il teatro, cioè, deve essere comprensibile a un pubblico variegato, non necessariamente colto, e al contempo tentare di riprodurre e restituire i vari significati del testo tragico, senza banalizzarlo. Quindi, a noi classicisti che ci occupiamo quotidianamente di “traduzione”, è sorta spontanea una domanda: come si comporta un traduttore di testi teatrali antichi? In altre parole, come si traduce un’opera teatrale classica destinata ad essere messa in scena per un pubblico attuale?



A partire da questi interrogativi, abbiamo organizzato un ciclo di incontri seminariali dal titolo I classici a teatro, al quale partecipano più di quaranta studenti, provenienti dalla Statale di Milano e dall’Università di Pavia. A tema è la traduzione di due tragedie greche, il Prometeo Incatenato di Eschilo e le Baccanti di Euripide, e di una commedia, Gli uccelli di Aristofane, opere che avremo modo di vedere rappresentate il prossimo maggio, al teatro greco di Siracusa.

Durante i primi incontri abbiamo affrontato lo studio del Prometeo Incatenato e delle Baccanti, traendone grande profitto. Guidati da Giuseppe Zanetto, docente di Letteratura greca nella nostra Università, per la prima opera, e da Davide Susanetti, docente di Letteratura greca nell’Università di Padova, per la seconda, abbiamo cominciato a comprendere in che cosa consista il compito arduo, ma appassionante del traduttore.



Soprattutto dalle lezioni di laboratorio, durante le quali noi studenti abbiamo presentato la nostra traduzione di alcuni passi scelti, sono emersi i problemi che il traduttore di un testo teatrale oggi deve affrontare. Innanzitutto, il problema della fedeltà al testo greco. Esso è spesso frainteso. Per utilizzare le parole del prof. Susanetti, quello della fedeltà è, sotto un certo profilo, “un falso problema, nel senso che si è fedeli quando si restituisce nella sua complessità un testo che tenga insieme la dimensione drammaturgica e la stratificazione di senso che i passi hanno”.

Quindi, una traduzione per la scena sarà tanto più fedele ed efficace quanto più vicina alle strutture sintattiche e comunicative della lingua italiana, se si traduce in italiano. In questo senso, usare un lessico trasparente, che spieghi per esempio gli epiteti, non necessariamente noti a tutti, o privilegiare la paratassi significa andare nella direzione di una chiarezza comunicativa resa necessaria dal tipo di fruizione che la scena richiede.

Il traduttore, prima di tradurre, dovrà essersi costruito una prospettiva interpretativa complessiva, senza la quale sarebbe impossibile una traduzione coerente. E, se esistono più traduzioni di uno stesso testo, è perché ne esistono più interpretazioni possibili, senza che questo significhi arbitrarietà.

Abbiamo quindi iniziato a capire, in questi primi mesi, che la traduzione è un atto creativo, essenziale per conoscere sempre di più la tradizione da cui veniamo. Per questo traduciamo: per riappropriarci del nostro passato, per ereditare la ricchezza che ci sostiene, ed immedesimarci coscientemente con quell’anima che costituisce e accomuna noi e gli antichi. Il tentativo stesso di ri-creare nella propria lingua ciò che un Eschilo, un Sofocle o un Euripide scrissero nel V secolo a.C. costringe ad addentrarsi, aiutati dalla grammatica, dall’intertestualità, dalla filologia, dalla poesia, in quel mondo che è sì nostro, ma che va riconquistato con la coscienza di un uomo del 2012. Solo così una traduzione potrà “parlare” ai nostri contemporanei e diventare una memoria viva.

Vorrei concludere, allora, con alcune parole di Antonio Gramsci, che abbiamo utilizzato come esergo del volantino informativo della nostra iniziativa e che ben sintetizzano queste nostre prime scoperte: “Non si imparava il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente”.

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