Caro direttore,
mi permetto di intervenire nel dibattito sull’utilità della traduzione dalle lingue classiche, in atto ormai da qualche tempo sulle pagine de IlSussidiario.net. Mi sento chiamato in causa dalla mia particolare posizione anagrafica: sono, infatti, uno studente del quarto anno di Lettere classiche, ma l’opportunità di aiutare dei ragazzi del liceo (con quelle che, con termine non particolarmente felice, si chiamano “ripetizioni”) consente anche a me di sperimentare il lato della didattica, per quanto ovviamente su scala ridotta. Per questa situazione sono sottoposto quotidianamente alla pratica della traduzione, sia imposta dai programmi degli esami che devo sostenere, sia liberamente praticata per interessi personali, sia dovendola “insegnare” (mi si passi, per ora, questo verbo) a un’altra persona: tale abitudine mi costringe a pormi domande sulla sua essenza, sulle motivazioni e sui metodi di insegnamento, inscindibili tra loro anche qui come in ogni ricerca scientifica.
Cos’è la traduzione? Se ne dovessi dare una definizione al modo socratico, mi sentirei d’accordo con quanto scritto su questo giornale dalla prof. Bellucci, secondo la quale tradurre «significa recuperare il senso di un testo in una certa lingua e riformularlo in un’altra». Giustamente Bellucci mette poi in luce la difficoltà e l’assoluta non scontatezza di un simile processo, domandandosi in che modo possa realizzarsi e suggerendo che l’ambiente adatto per ciò sarebbe, secondo le parole citate da un testo della prof.ssa Cigada, un «lungo lavoro di rielaborazione comune». Trovo, tuttavia, che questa risposta sia soddisfacente solo se interpretata: come sto avendo modo di approfondire in un seminario sulla traduzione dei testi tragici greci organizzato da alcuni studenti nella mia università, è vero che è impossibile rendere in una lingua l’intera complessità di un testo in un’altro idioma – secondo quanto ci ha anche insegnato l’ipotesi di Whorf-Sapir –, però è sempre possibile tradurre in modi differenti il medesimo testo (fatto salvo, s’intende, un debito uso delle conoscenze filologiche), dando di volta in volta sottolineature differenti ai contenuti.
A questo problema si connette un’altra questione: cosa, del testo originario, devo trasporre nella mia lingua, e in che modo? Quello che dice l’autore? Quello che capisco io? Quello che posso trasmettere a un pubblico? Devo rispettare l’ordo verborum e la sintassi (rientrando nella famigerata categoria della “traduzione letterale”) oppure no? Tutte e tre le possibili opzioni sono valide, mentre le due modalità non lo sono sempre (come emergerà dagli esempi che porto). La prima avrà maggiormente valore per un giovane studente, che dunque, prima di essere introdotto all’interpretazione più profonda di un testo e all’esplicitazione di essa, dovrà considerarlo nella sua oggettività di riferimenti; oppure per chi deve tradurre, anche professionalmente, un testo di prosa, piuttosto descrittivo che connotativo.
La risposta alla seconda domanda, in un senso non banalizzato, vuol significare la legittimità che si ha di presentare, anche in sede editoriale o scientifica, una traduzione che si allontani dalla pedissequità, ma che sia ovviamente sostenuta dai crismi della scientificità. Per chi, poi, dovesse presentare una traduzione da mettere in scena a teatro, e arrivasse a dover tradurre un passo corale, non si potrebbe rispettare la struttura originale del greco, in quanto si otterrebbe una sintassi incomprensibile a un ascoltatore, oltre a gravare il testo di noiosi (sì, diciamolo pure) accumuli di epiteti: qui la traduzione deve dunque essere, oltre che indirizzata e plasmata secondo le determinate attese e un certo orizzonte culturale di un pubblico (d’altronde, ad Atene nel V secolo a.C. succedeva esattamente così), programmaticamente infedele.
A cosa serve la traduzione? La risposta che si dà comunemente – la traduzione esercita la logica – non convince: non è mai stato dimostrato che una lingua sia più logica di un’altra (per quanto sia stata un’idea assai diffusa in linguistica tra Seicento e Settecento, dove ogni nazione rivendicava alla propria lingua lo statuto di logicità e, ipso facto, di perfezione), né del resto si capisce che cosa significherebbe il fatto che una lingua sia più o meno logica. Più vera, ma ancora non soddisfacente, è la risposta che guarda alla nostra diretta filiazione dalle radici greche e romane (gli umanisti, con il loro ideale dell’homo trilinguis, riscoprirono e riconobbero l’eredità che ci lega anche al mondo ebraico).
A mio parere l’unica risposta piena alla domanda sul significato del tradurre è quella che parte dalla considerazione della natura del latino e del greco come “lingue come tutte le altre, con il loro bravo armamentario fonetico, morfologico, sintattico”, secondo la brillante formulazione del prof. Milanese. Si potrebbe obiettare che valga la pena dedicarsi anche ad altre lingue – io stesso ho avuto modo di affrontare lo studio dell’ebraico, dell’etiopico, dell’armeno –, eppure, in contrasto con le tendenze di pensiero debole che si registrano a questo proposito al giorno d’oggi, direi che a selezionare il latino e il greco nell’immenso patrimonio di lingue del mondo (anche perché conoscerle tutte è impossibile) hanno concorso appunto la nostra discendenza dai due popoli che parlarono queste lingue, alimentata da una continua tradizione, e senz’altro anche l’eccellenza di arte e di pensiero che in queste due lingue si espresse.
Come si insegna la traduzione? È inutile: non la si insegna. Si insegnano le grammatiche del latino e del greco, si insegna un certo rapporto con la lingua, ma la traduzione è qualcosa che va oltre, che rasenta l’afflato artistico: cercherò di spiegarmi. Potrebbe sembrare parzialmente contraddittoria con quanto ho appena detto una critica che mi permetto di muovere al prof. Tanca, il quale, con ricchezza di fonti, illustra come il latino sia una lingua viva ancor oggi: già l’affermazione che si tratti di una lingua “modellata su un corpus delimitato di atti comunicativi”, però, stona, in quanto una lingua viva è definita in quanto tale dalla presenza di un soggetto, si badi bene, parlante – e non solo scrivente: non ci si deve dimenticare che la produzione linguistica vera e propria è quella orale –, che abbia appreso la lingua da una ininterrotta catena di genitori in figli, e in grado di produrre infiniti nuovi enunciati.
Non solo: se anche la “categorizzazione astratta di regole grammaticali” comincia solamente con i grammatici di Port-Royal, però fin dai tempi più antichi (ce ne dà testimonianza per esempio Orazio in Epistulae II, 69-71) a scuola non si studiava genericamente l’usus, quanto piuttosto un canone di autori, identificato poi dalla cosiddetta Quadriga Messii – Virgilio, Terenzio, Sallustio, Cicerone. Insomma, basandomi anche sulla mia esperienza personale, rispondo che per entrare in contatto con le strutture della lingua è necessario uno studio approfondito della grammatica, affiancato da una ricca e immediata formazione in campo lessicale: avendo studiato un poco il tedesco e, ora, l’armeno mi accorgo che, pur non avendo alcuna difficoltà nell’apprendimento della grammatica, la maggior parte dei problemi deriva da una scarsa conoscenza del lessico.
La fase di “immersione”, per riprendere un termine del prof. Milanese, nella grammatica deve presto essere seguita da un’altra fase, che però io definirei di “immersione nel sistema linguistico”: per imparare davvero bene a tradurre, oltre a essere necessaria una sensibilità naturale all’aspetto linguistico dei testi, occorre un contatto assiduo con essi, per apprendere le modalità espressive peculiari della lingua. E vengo qui a completare la risposta alla domanda sull’utilità della traduzione: se la lingua, in quanto sistema, ha delle sue peculiarità espressive, e se, come insegnatomi dalla prof.ssa Moretti in un corso di Lingua latina, ogni autore a sua volta utilizza la lingua secondo il significato che vuole trasmettere, non potrà esserci altra utilità nella traduzione che quella di raggiungere un contatto il più possibile stretto con l’autore del testo. A chi si reca in un Paese straniero si presenta la necessità pratica di entrare in contatto con gli autori di testi (tali sono gli enunciati linguistici, anche solo “La panetteria sta all’angolo con la piazza”) nella parlata del luogo; a millequattrocento anni di studiosi e studenti, dall’emergere delle lingue romanze al dominio incontrastato dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale, si è presentata l’esigenza di entrare in contatto con le grandi figure del passato – secondo il famoso racconto di Machiavelli evocato dal prof. Tanca –, e il mezzo era lo studio assiduo delle lingue nelle quali essi avevano scritto le loro opere.
Vorrei concludere con un’immagine suggestiva, che mi è nata dall’ascoltare un concerto, tenuto interamente a memoria, del grande pianista Andras Schiff, ma che si può applicare anche ai grandi autori del passato: come si studia per imparare a comprendere e disegnare progetti per costruire strade, ponti e palazzi, così forse, all’inverso, si ascolta un capolavoro della musica classica, si sono studiati e si studiano i testi dei grandi autori latini e greci come se fossero dei promemoria, lasciati perché ci ricordassimo la stoffa di cui sono fatti gli uomini grandi.