Dopo il riordino della scuola secondaria, l’impegno del governo in ambito politico scolastico sembra orientato lungo due principali linee strategiche: la modernizzazione tecno-informatica e la promozione della cultura pedagogica delle competenze. Questi due obiettivi sono tenuti insieme dalla solida fiducia nella forza della tecnocrazia di governare i processi di cambiamento.
È tuttavia naturale chiedersi se la delega tecnocratica sia sufficiente per rispondere a una realtà nella quale gli effetti della crisi economica non si misurano solo con i tagli e le riduzioni di risorse, ma con una realtà esistenziale che sta mutando in modo complessivo e vertiginoso. Mi riferisco all’immersione in un periodo non breve nel quale i giovani sperimenteranno condizioni di vita e fruizione di beni inferiori o comunque non superiori a quelli di cui hanno fin qui goduto.
Il grande interrogativo che si aggira tra noi silente, ma pesante come un macigno, riguarda la capacità dei giovani di reagire a questa realtà: sapranno risalire la china rimboccandosi le maniche, studiando e lavorando di più, sapranno accettare la realtà e affrontarla a viso aperto, sapranno misurarsi – prima ancora che con la concorrenza globalizzata – con se stessi, con il loro desiderio di futuro, con una speranza credibile?
Sapranno vincere la retorica del declino vissuto come un evento ineluttabile e l’ossessivo primato assegnato all’assolutezza del presente e al valore singolare dell’individuo, per riallacciare relazioni virtuose e stringersi in una rinnovata solidarietà? Come sapranno aiutarli e sostenerli gli adulti? Gli educatori saranno capaci di veicolari valori positivi e costruttivi pur nelle difficoltà attuali?
Si tratta di questioni che, naturalmente, non toccano solo la vita della scuola e che investono anche (e forse soprattutto) le famiglie e gli stili di vita giovanili. Ma la scuola non può in ogni caso sfuggire la domanda su come aiutare i ragazzi e i giovani a tenere acceso, anche in tempi di crisi, quello che il presidente Napolitano nel meeting di Rimini 2011 ha definito “il motore del desiderio”.
Oggi prevale nella maggioranza dell’opinione pubblica la convinzione che occorra rispondere alla crisi economica con un uso più oculato delle risorse degli individui, stabilire un nesso virtuoso tra luoghi della formazione e luoghi delle professioni, vigilare attentamente perché non ci siano sprechi, inadempienze, incapacità nel sistema scolastico, migliorare l’uso della lingua inglese e potenziare la capacità di avvalersi delle risorse info-telematiche. Esigenze tutte rispettabili che, tuttavia, scambiano per fini quelli che sono semplici strumenti e mezzi per assicurare maggiore capacità produttiva.
Bisogna infatti chiedersi se il criterio (sacrosanto, beninteso) dell’efficienza e della dipendenza dalle categorie economiche sia il più idoneo a innervare una scuola all’altezza della complessità dei problemi legati alla crisi economica. Oppure se non si debbano mettere in campo anche altre risorse – che appartengono al capitale dei “beni immateriali” – e perseguire obiettivi a più ampio raggio per contenere, nel medesimo tempo, le illusioni dell’invadente tecnocrazia proceduralista e pensare a qualcosa di più e di diverso.
Il sistema educativo non sarà all’altezza dei tempi se non si creerà un nuovo spazio ideale e culturale in cui farlo: non è sufficiente aggiungere alla lista degli obiettivi nuove competenze da raggiungere o nuove risorse economiche.
Questo spazio già oggi esiste, almeno sulla carta: quello disegnato sul finire dagli anni 90 dalla grande svolta dell’autonomia scolastica. Se non si pratica coraggiosamente la strada dell’autonomia superando i ristretti orizzonti attuali, se non si investe sulla libertà delle istituzioni scolastiche di disegnare il loro futuro, se non si pongono le condizioni per creare sul territorio una grande alleanza in favore della scuola (famiglie, insegnanti, amministratori locali, risorse economiche e culturali), è difficile che dall’attuale stagnazione – segnata da una autonomia piccola e bardata da vincoli, lacci e lacciuoli centralistici – possa riportare la scuola al centro della vita del Paese.
Una scuola migliore è possibile solo dal basso. Ed è questa anche la via per restituire agli insegnanti – oggi delusi e spesso collocati in uno spazio mentalmente difensivo – il loro naturale ruolo di protagonisti. Nessun computer e nessuna competenza potrà mai sostituire l’esperienza di un maestro.