Oramai le statistiche ci inseguono. E confermano ciò che, in realtà, già sappiamo: che l’Italia è il fanalino di coda anche per la spesa pubblica, come ci dicono i dati Istat, per istruzione e formazione. Solo il 4,8% del Pil contro il 5,6% della media Ue.

Proprio perché dati conosciuti, sarebbe stato opportuno attendersi, da un ministro “tecnico”, non il solito grido di allarme, ma ipotesi ed interventi concreti. Invece, anche il ministro Fornero, nella sua Torino, non è riuscita a trattenersi, ed ha ceduto alla tentazione della denuncia generica: i nostri giovani – questo in sintesi il suo intervento – sanno troppo poco, non conoscono le lingue, italiano compreso. E non sanno fare di conto. Per concludere con qualcosa come: per voltare pagina non basta riscrivere le regole.



Le regole, appunto. Basterebbe introdurle, le nuove regole, con buone leggi. Con atti coraggiosi, senza le solite infinite mediazioni. Nuove regole per voltare pagina e costringere a quel cambio di marcia da tutti invocato, ma da troppi temuto.

Dunque, dai ministri “tecnici”, cioè vincolati al merito dei problemi, sarebbe giusto aspettarsi una maggiore capacità di analisi e di sintesi, assieme a proposte concrete e misurabili.



Penso qui anche ai ministri Patroni Griffi e Profumo. Il primo, in un recente intervento apparso sul Corriere, ha rivendicato la centralità, rispetto alla premialità prevista dal decreto Brunetta (DL 150 del 2009), “della performance organizzativa nel senso di misurare il buon risultato dell’unità organizzativa”. Solo nell’ambito di questa verrà valutato il dipendente come il dirigente. In poche parole: addio al principio della responsabilità personale. Addio, cioè, al principio del merito. Per cui, alla fin fine, le persone che lavorano valgono solo in quanto espressioni di una organizzazione, non per se stesse. Noi, dunque, siamo, per Patroni Griffi, solo ingranaggi di un sistema!



Qualcosa di analogo è venuto anche dal ministro Profumo, quando abbiamo letto la sua proposta – corretta due giorni dopo da una nota ministeriale – in base alla quale chi insegna da tre anni, come da direttiva europea, non avrebbe dovuto sostenere nessuna prova selettiva per l’accesso al Tfa. Al di là del riferimento europeo, anche questa ipotesi, subito rientrata, non tiene conto della responsabilità personale, cioè del valore-persona. Un docente supplente, infatti, viene incaricato non in base ad una valutazione di merito, ma solo scorrendo una graduatoria. Senza mai essere valutato. Perché non prevedere, invece di un corso ad hoc (come dice la Nota), che l’ammissione ai corsi di abilitazione per chi ha tre anni di insegnamento non possa essere legata ad un giudizio di merito da parte del responsabile della scuola, cioè del preside, anche attraverso il coinvolgimento del “comitato di valutazione” già attivo nelle scuole? Perché non prevedere un’etica delle responsabilità? Perché non sperimentarla, al limite, in alcune Regioni? 

Tutti sappiamo che i docenti dovranno, quando entreranno in ruolo, sostenere l’anno di prova, con un corso apposito ed una relazione finale di fronte al “comitato di valutazione”. Ma, come ben sa chi conosce la scuola reale, quando mai è successo che un “comitato di valutazione” interno abbia nei fatti bocciato o solo fatto slittare di un anno l’immissione in ruolo? I ricorsi al giudice del lavoro, col patrocinio dei sindacati, sono sempre dietro all’angolo. Il problema è dunque “filtrare” in termini qualitativi l’entrata dei docenti nella scuola, in ragione, poi, di un sistema di valutazione sull’effettivo servizio di tutti i docenti, di ruolo e non di ruolo. È noto che non è facile studiare la scuola non solo come luogo di apprendimento, ma – in modo analogo e comparato rispetto agli altri ambiti del lavoro –  anzitutto come luogo professionale. Senza questo passo in avanti riformatore, sarà sempre difficile, oltre le medie statistiche, entrare nel merito delle provocazioni, come la battuta un po’ affrettata del ministro Fornero, sulle carenze degli studenti italiani.

Ci piacerebbe che il ministro Profumo, assieme al ministro Fornero, assumesse una iniziativa in ordine a questi aspetti. Senza lasciare, ai poveri presidi, la patata bollente, tra poche settimane, di quei docenti critici, che nessuna classe vuole, ma ai quali noi dobbiamo assegnare, per il prossimo anno, le fatidiche 18 ore di cattedra. Ruotandoli di anno in anno, e costringendo i docenti migliori a prendersi le classi lasciate in difficoltà da questi docenti.

Se una selezione, attraverso un concorso, non tiene in conto anche questo aspetto cruciale, presente in tutte le scuole, non incideremo davvero sulla qualità dell’offerta formativa, una qualità reale che è prioritaria rispetto anche alle risorse finanziarie, ai vecchi o nuovi ordinamenti, alla organizzazione e alle strutture. Sono le persone che fanno la scuola, anche come organizzazione didattica, non viceversa! Anche l’organizzazione, lo sappiamo, si impara, ma senza pretese deterministiche.

Proprio per questi motivi, concretissimi, ma dei quali, chissà perché, non si può discutere, accanto al “principio di persona” noi dovremmo dunque tenere sempre a mente il “principio di realtà”, cioè vedere nel concreto come stanno le cose. Chiedendo, a chi vive sul campo le mille difficoltà del lavoro quotidiano, come intervenire. Senza più affidarsi ai soliti rappresentanti sindacali, oramai da anni lontani dalla scuola reale, come sono lontani dalla scuola reale anche i troppi “tecnici” delle burocrazie ministeriali centrali e periferiche. I veri “tecnici” di un “governo tecnico” che ha sentito la necessita di affidarsi a super-tecnici esterni. Quei tecnici ministeriali che stanno imponendo, più o meno surrettiziamente, l’azzeramento dell’autonomia scolastica, in nome di un redivivo centralismo. Provare per credere.

Pensiamo qui alla (demagogica) consultazione sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio, conclusasi lo scorso 24 aprile, e oggi lasciata nel silenzio dei corridoi ministeriali. Sono 50 anni che se ne parla, ma nulla si è fatto, dalla denuncia di Einaudi in poi. Con l’abolizione si cancellerebbe una sorta di circolo perverso: quello per cui da un lato lo Stato crede di imporre un’uguaglianza solo formale attraverso un pezzo di carta, dall’altro gli studenti e le famiglie credono davvero, soprattutto i meno abbienti, che esista una uguaglianza di fatto, cosa non vera, tra scuole e tra università. I titoli di studio, invece, non hanno nella realtà lo stesso valore, indipendentemente da dove sono stati conseguiti. Una verità che va letta non in negativo, ma in positivo, perché riconosce la libertà come responsabilità, cuore pulsante del nostro vivere sociale. Il “metodo della libertà” come centro di una matura democrazia. Non però una libertà ridotta a “far west” formativo: lo Stato fornisca la certificazione dei livelli essenziali di accreditamento, sulla base di standard minimi. In tal modo lo Stato sarebbe finalmente garante del “servizio pubblico”.

Ci vorrebbero più “operazioni verità”, come le aveva chiamate Monti all’inizio del suo incarico. A 360 gradi. Ma, come si è visto anche in queste ultime elezioni politico-amministrative, in Italia non mancano i politici o i candidati alla carriera politica, vecchi e nuovi. Il problema è che manca la politica. Cioè quella capacità di andare oltre le mille corporazioni, per individuare quel “bene comune” che tutti invocano. Non so se solo a parole.