Caro direttore,
quella di offrire interi corsi in lingua inglese è una scelta sostanzialmente provinciale che non apre di certo brillanti prospettive agli atenei italiani che vi indulgono e ai loro studenti. Perciò è confortante che una recente decisione in tal senso del Politecnico di Milano, aggravata dal fatto di essere senza alternative, stia suscitando notevoli polemiche.
Che l’inglese sia la lingua franca del nostro tempo è evidente. La sua conoscenza è pertanto necessaria, ma è un grosso equivoco credere che sia sufficiente. Questo perché ha per l’appunto tutti i grandi vantaggi pratici ma anche tutti i grandi svantaggi culturali da sempre tipici delle lingue franche: quello di essere tanto un ottimo strumento di comunicazione pratica immediata quanto un pessimo strumento per quanto attiene allo scambio approfondito di idee e di esperienze. Stiamo parlando non dell’inglese di Shakespeare o di Eliot ma del cosiddetto “international English” che, come è tipico delle lingue franche, viene per lo più parlato da persone per le quali non è lingua materna. Di qui il suo costante impoverimento, logoramento filologico e irrigidimento in formule fisse. Se è vero come è vero che la ricerca creativa è o dovrebbe essere il proprium dell’insegnamento universitario, l’ultima cosa che si può desiderare per un’università già abbastanza in crisi come quella italiana è quella di andarsi a infilare in un vicolo cieco del genere.
Altra cosa sarebbe puntare a una certa internazionalizzazione del corpo insegnante grazie alla quale alcune cattedre fossero affidate a docenti stranieri – non solo anglofoni però ma anche francofoni, germanofoni ecc. – i quali insegnassero poi nella loro lingua materna oppure in altra lingua che padroneggiassero davvero perfettamente: cosa in effetti rarissima essendo l’esito eventuale del combinarsi di studi filologicamente molto approfonditi con vicende biografiche per natura loro non comuni. E anche in questo caso si dovrebbe dare la possibilità agli studenti che lo desiderino di fare l’esame in italiano. Per chi parla o anche solo comprende una lingua a lui straniera l’ascoltare, il leggere chi la parla e la scrive come lingua madre è un’occasione di arricchimento linguistico; come invece non è quando la lingua con cui si comunica è straniera per entrambi gli interlocutori.
È invece una prospettiva cinico-comica da film di Paolo Villaggio quella di un professore italiano che in un’università italiana tiene un corso parlando in “international English” a studenti quasi tutti italiani i quali spesso interloquiranno poi con lui nell’inglese di fantasia della famosa canzone di Adriano Celentano. E vale la pena di aggiungere che non solo in sede di insegnamento ma anche in sede di ricerca e di scambi scientifici l’uso predominante, se non esclusivo, dell’“international English” può funzionare (ma anche qui non senza danni) nel campo delle scienze applicate, dove per definizione il pensiero creativo ha un ruolo limitato, ma tarpa le ali agli studi umanistici e alla ricerca pura, ossia al vero motore della scienza e del progresso dell’uomo.
L’università fa comunque seguito a un cursus formativo di 13-14 anni. Quindi le sue scelte in campo linguistico risultano astratte e controproducenti se non sono in sintonia con quanto al riguardo accade in precedenza, sin da quella della scuola primaria. Non ripeto qui quanto già scrissi in altre occasioni. Mi preme ora innanzitutto sottolineare che nel mondo in cui viviamo la scuola deve educare al multilinguismo, al successivo apprendimento di nuove lingue anche in età adulta, all’acquisizione della competenza passiva, ovvero della capacità di comprendere lingue che pur non si parlano; e non al campo chiuso dei monolinguismi. Ciò tuttavia non è possibile se non si prendono le mosse da una conoscenza forte e approfondita della propria lingua materna e della propria parlata, quale che essa sia (ovvero tanto lingua standard quanto dialetto).
Tanto più per noi europei, che viviamo in un continente ove si usano non meno di trenta lingue scritte, codificate e di uso pubblico ufficiale, la prima lingua diversa dalla propria da imparare è la “lingua del vicino”, e non l’inglese. Per noi in Italia ciò significa il francese o il tedesco o una lingua dei popoli che stanno sulla riva orientale dell’Adriatico o l’arabo (e ancora il francese). Dal momento che oggi viene garantita l’istruzione ben oltre l’antica “scuola dell’obbligo”, tanto più diviene senza senso precipitarsi a insegnare l’inglese. Se adeguatamente valorizzata, la prossimità geografica dà una forte spinta psicologica all’apprendimento della lingua del vicino per quanto essa sia lessicalmente lontana dalla propria.
Ed è molto importante che lo studio della prima lingua straniera cui si pone mano non sia un fallimento. Lo studio dell’inglese è meglio che cominci dopo, come si fa nelle scuole del Canton Ticino, dove gli studenti – nel cui curriculum ci sono peraltro più ore di italiano di quelle che si fanno da noi – escono dalle scuole medie parlando bene tre lingue moderne: le altre due principali lingue nazionali svizzere, cioè il tedesco e il francese, nonché l’inglese. Se lo si può fare a 12 chilometri da Varese, a 0 da Como e a meno di 50 da Milano lo si deve poter fare anche in Italia. Si tenga poi conto che per noi ha una particolare importanza il francese, lingua del vicino ma anche lingua d’uso internazionale, il venir meno della conoscenza della quale ci sta causando notevoli danni, tra cui in primo luogo una maggiore difficoltà in relazioni per noi cruciali come quelle con il Nordafrica e l’Africa occidentale sub-sahariana.
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