Noi, che gli atenei li abbiamo inventati e vantiamo la più antica tradizione universitaria, arretriamo pure su questo fronte. Il Rapporto AlmaLaurea 2012 non lascerebbe adito a dubbi: tanto per cominciare, tra il 2004 e il 2011, in otto anni, c’è stato un calo delle immatricolazioni del 15%. Nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, inoltre, solamente il 25% è laureato, contro il 37% della media europea. Ma attenzione: secondo Giuseppe Bertagna, professore di Pedagogia generale nell’Università di Bergamo, raggiunto da IlSussidiario.net, i dati, in realtà, vanno presi con le pinze: «occorre ragionare su quelli reali. Anzitutto, infatti, abbiamo meno laureati perché le nostre lauree sono le più lunghe al mondo; inoltre, negli altri Paesi Ocse, rientrano in tale categoria non soli i laureati come li intendiamo noi, ma anche chi ha avuto una formazione professionale superiore. E per titolo superiore s’intende, negli altri Paesi, un titolo successivo di almeno due anni alla scuola secondaria». Va da sé, quindi, che «le statistiche dovrebbero essere realizzate con criteri di indagine omogenei e contemplando elementi commensurabili. Al netto di queste differenze, quindi, i nostri laureati, magistrali e triennali, non sono, mediamente, in numero inferiore rispetto a quelli degli altri paesi europei».



Il vero problema, casomai, è un altro. «Dal punto di vista del mercato del lavoro, non abbiamo troppi laureati, anzi». In Italia, c’è un’anomalia che complica le cose: «il 40% degli studenti sceglie di frequentare un liceo. In tutti gli altri Paesi del mondo, la formazione generalista è scelta da, al massimo, il 25% della popolazione studentesca. Gli altri scelgono una vocazione corrispondente alla nostra istruzione tecnica o professionale. In certi casi, come in Germania, perfino l’apprendistato conferisce un titolo di studio. Cosa che noi non ci sogniamo nemmeno, pur avendolo come possibilità di legge introdotta da Sacconi e, si spera, al più presto in via d’attuazione».



La questione determinante invece è far sì che la domanda si sposi con l’offerta. «In Italia si sarebbe dovuto adottare la strategia della legge 53 che prevedeva, dopo l’istruzione e la formazione professionale secondaria, che rilascia qualifiche e diplomi, il proseguimento in quella direzione con la diffusione e la generalizzazione  dell’istruzione e della formazione professionale superiore. Avremmo avuto anche noi una moltiplicazione dei titoli di studio superiori conteggiabili anch’essi tra i laureati. E avremmo dato una risposta all’enorme carenza di quadri, di tecnici e di operai intermedi». 



Invece, il trend è inverso: «alla laurea triennale si iscrive chi, provenendo dal liceo, ha deciso di compiere un lungo percorso, aspettandosi una determinata possibilità sul mercato del lavoro che, in realtà, non chiede quel genere di competenza». Il calo di immatricolazioni negli ultimi 8 anni, infatti, è da leggere in tal senso: «è indice del fatto che la gente non si può illudere senza pagare pegno. Gli studenti sono stati convinti del fatto che con un laurea in mano avrebbero avuto più chances, uno stipendio più alto, la possibilità di essere protagonisti nel mondo del lavoro: ma il mercato, costituito al 97% dalla piccola e dalla media impresa, ha bisogno di professionalità di tutt’altro genere. E oggi, grand parte dei laureati è costretta alla disoccupazione o ad una sottoccupazione».

 

(Paolo Nessi)