Come si fa a studiare in maggio?” Bella domanda! Capasa, sulle pagine di questo quotidiano, ha già suggerito una risposta, che apprezzo molto, perché apre un orizzonte ampio e affascinante per cogliere l’essenza e le ragioni dello studio. 

Premetto innanzitutto che non è questione di mesi, ma di giorni, meglio di ore, anzi di istanti. Chi non sa vivere l’istante, non sa imparare, non riesce a studiare. Leitner, psicologo tedesco, con la consueta ironia con cui tratta tutta la questione del metodo di studio, dopo aver parlato di cowboy e di samurai impegnati a cogliere l’attimo per non soccombere, finisce con l’affermare che c’è un tempo naturale di reazione senza il quale non accade apprendimento: è il tempo che si avverte come “presente”, “l’adesso”, il “mezzo secondo critico” atteso e improvviso. 



Aiutare gli studenti a vivere l’istante: ecco il primo compito di chi ha vissuto, vive e propone l’esperienza di “studi leggiadri” alla Leopardi. Accompagnare a centrare modi e ragioni (senso) di quello che si compie tra le “sudate carte”. Testimoniare la possibilità dell’Age quod agis, quell’esperienza per cui, per dirla con Pennac, “i minuti volano come secondi… il tempo non è più tempo”. 



È nell’istante che emerge il nesso tra studio e desiderio. Come un lampo. Non per autoaccensione, ma per un incontro con una proposta. Capasa ha ben evidenziato come lo studio abbia nel suo dna proprio il desiderio. Tuttavia non si tratta di un desiderio innato, ma di un’espressione di quell’impeto originale con cui l’essere umano si protende sulla realtà per conoscerla, coglierne il senso, manipolarla, trasformarla assecondando le sue umane esigenze. 

“Uno studente deve vivere la sua vita di uomo” (Bosquet), cioè assecondare con lealtà quest’impeto. La voglia di vivere viene prima di quella dello studiare, il rapporto con lo studio è un aspetto del rapporto con la realtà totale. “Il vero studente è uno che sa ed ama vivere”. Questo lo slogan che propongo spesso agli alunni per aiutarli a superare contrapposizioni tra tempo di vita e “eternità di studio”, per invitarli ad organizzare il tempo, per sostenerli nella scoperta e nell’uso di un metodo personale ed efficace. Studiare vuol dire vivere intensamente il tempo, anche quello che non viene dedicato ai compiti e alle lezioni, prendendo sul serio le proprie esigenze dentro e fuori la scuola, nello studio e fuori dello studio. Sono convinto infatti che lo studio sia innanzitutto una questione di educazione.



Sto parlando dello studio scolastico, che di fatto e di diritto assume la fisionomia di una proposta, più o meno affascinante, avanzata da adulti (maestri, professori, genitori, in forme e con ruoli diversi), a bambini, ragazzi e giovani, che vengono guidati ed accompagnati a verificarne la validità, la bellezza, la convenienza. I contenuti essenziali della proposta sono: l’impegno, il tempo, l’apprendimento, la materia. Per questo possiamo e dobbiamo dire ai nostri alunni che studiare è applicarsi (impegnarsi, dedicare tempo) all’apprendimento delle diverse materie. 

Purtroppo a scuola si dà per scontato che tutti sappiano effettivamente in che cosa consista lo studio. Ci si comporta, dentro e fuori la scuola, come se lo studio fosse elemento strutturale dell’umano, un imperativo (“Dovete studiare”) connaturale ed intrinseco all’essere uomo, per cui basta schioccare le dita che subito scatta la passione e l’impegno dello studio. Molti docenti non avvertono l’esigenza di condividere il significato, i passi e le ragioni dello studiare questa o quella materia. Forse, confondono tra apprendimento spontaneo ed apprendimento insegnato, tra il desiderio di conoscere e lo studio, tra la curiosità e la studiosità.

A questi insegnanti domanderei: “Quando assegniamo, per esempio, in una terza media, il compito di studiare L’infinito di Leopardi, i nostri studenti sono consapevoli di che cosa stiamo chiedendo? Sanno attribuire lo stesso significato e analoghe movenze all’azione ‘studiare L’infinito’ che dà l’insegnante? Si rendono conto che studiare è confrontarsi ed immedesimarsi con lo sguardo sulla realtà di un grande uomo?”. No? 

Lo studio è dialogo – paragone con i grandi uomini della cultura, dell’arte, della scienza, della tecnica. Lo è grazie all’insegnamento all’interno di una compagnia guidata (classe), che è risorsa perché lo studio diventi avventura ed incontro, ricerca e scoperta, assunzione e verifica della proposta del docente.

Tra i docenti (e i genitori) ci sono anche quelli che pensano e si comportano come Ortega y Gasset, secondo il quale lo studio non né avventura né immedesimazione, ma “un triste fare umano”, privo di fascino, anche in mesi diversi del “maggio odoroso” di Leopardi. Per il filosofo spagnolo, “il desiderio di sapere che può sentire il bravo studente è del tutto eterogeneo, forse antagonico allo stato dello spirito che ha portato a creare il sapere stesso … Lo studente tipo è un uomo che non sente la diretta necessità della scienza, o la preoccupazione per essa, e tuttavia si vede costretto a occuparsene … Essere studenti, come essere contribuenti, è una cosa ‘artificiale’, che ci si vede obbligati a essere”. 

Allora dobbiamo eliminare lo studio? Dobbiamo abolire la scuola? “Togliere il disturbo” direbbe qualcuno? No, risponde Ortega y Gasset: “Studiare ed essere studente è sempre, soprattutto oggi, una necessità inesorabile dell’uomo. Lo voglia o no, egli deve assimilare il sapere accumulato, sotto pena di soccombere individualmente o collettivamente”. Evitiamo dunque il giro di parole, lo studio è costrizione; scienza fa rima con sofferenza. “Far” studiare è “far” soffrire. Strumento al riguardo è la valutazione. Questo è il pensiero di molti uomini e donne di scuola, persino di genitori. 

È indubbio: c’ è un legame inscindibile tra sacrificio e studio, tra sofferenza e conoscenza. Ma non nei termini negativi descritti da Ortega y Gasset.

Lo studio è sacrificio innanzitutto perché non è della stessa natura della voglia dell’imparare istintivo, episodico e casuale. Chi studia deve applicarsi (piegarsi, da ad-plicari), deve accettare di assumere la posizione adeguata per apprendere (afferrare con la mente, con forza) un certo oggetto mentale, rinunciando a schemi, ad abitudini, a pregiudizi e, soprattutto, impegnando del tempo. Il sacrificio consiste proprio in questo: dedicare del tempo ad una cosa che non ha immediatamente la stessa presa coinvolgente che avrebbe la partita di pallone, l’uscire con gli amici, stare con la ragazza o il ragazzo. Se lo si affronta, diventa una risorsa. Non si tratta infatti di rinunciare al pallone, alla musica, agli incontri con le persone a cui si vuole bene. Semplicemente occorre scegliere quando, quanto e per quanto tempo applicarsi a questa o a quello cosa, hic et nunc. Scegliere personalmente. Lo studio, gesto di libertà e di responsabilità personale, non ammette mai sostituti, pena la sua morte sul nascere.

“Studio e libertà sono due buoi sotto lo stesso giogo nel campo della verità. Sono te stesso in azione. Sono espressione del tuo bisogno di felicità. Per questo costano. Ma attenzione, il prezzo che paghi non è la gabbia e neppure la fuga. È un sacrificio, cioè un atto volontario (libero) di rinuncia ad un valore per un valore qualitativamente superiore. Non s’impara nulla senza sacrificio. Sia che si tratti di una discesa con gli sci, o di un ragionamento matematico, o dell’interpretazione di un’opera d’arte, imparare è dire ‘no’ ad un valore per un valore più grande” (Lettera ad un liceale). 

Scegliere con grinta. Smettiamo di parlare di “voglia di studio”, che è desiderio volubile, senza un oggetto preciso, sterile, privo di progetto. Dovremmo eliminare dal vocabolario quotidiano il sintagma “voglia di studio”. 

Lo studio esige che ci si opponga con determinazione alla veemenza delle voglie nel cui mare si annega il cuore e il pensiero. Parlo della determinazione che proviene dalla coscienza e dall’animo di chi intuisce un bene per sé nell’azione-studio; coscienza provocata non da autoaccensione della mente, bensì da una proposta carica di senso. La quale è tanto più efficace quanto più è in sintonia con l’impeto con cui l’uomo-studente si protende verso il suo destino ed è formulata in sinergia con genitori e colleghi in un ambiente comunitario. Proposta assunta e verificata nella certezza di un “guadagno” (si veda etimologia di “imparare”), di cui è caparra la gioia del conoscere sperimentabile anche nella fatica. 

La volontà, quella che in caso di necessità fa stringere i denti e fa sopportare la sofferenza, è lo strumento principale dell’apprendista nel lavoro manuale, ma, contrariamente all’opinione più corrente, non ha quasi nessuna parte nello studio. Solamente il desiderio può guidare l’intelligenza e affinché il desiderio sussista, deve esserci piacere e gioia. L’intelligenza si sviluppa e porta frutto solo nella gioia. La gioia di imparare è altrettanto indispensabile agli studi quanto il fiato ai corridori. Là dove manca, non vi sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che, alla fine del loro tirocinio, non avranno nemmeno un mestiere” (Simone Weil).

A maggio, come in ogni altro mese, in ogni istante, lo studente è davanti ad un bivio: o la gioia di cui parla la filosofa francese o la noia ovvero il sentimento del non-valore che brucia ogni interesse, ogni domanda, ogni desiderio rendendo tutto uguale. “Chi si annoia sente che tutto è indifferente, che nulla vale la pena, che ogni proposta fatta per distrarlo, o per coinvolgerlo, è ‘indifferente’, cioè senza valore … La noia implica non solo un sentimento, ma una decisione, un giudizio del tipo: ciò non è interessante, e ne sottende un altro: sarà sempre così” (Reboul). 

Contro il sentimento del non valore occorre opporre un sentimento più forte, per esempio, lo stupore del docente, un giudizio di valore più potente, possibilmente condiviso nell’ambiente di aula e di scuola, la testimonianza del sapere (provare sapore, gusto per le cose). Questo è possibile, per esempio, quando l’ora di lezione è presentata, svolta e verificata come incontro ed è vissuta come evento. 

La qualcosa non accade né per magia (neppure quella delle più sofisticate tecnologie e strategie didattiche) né per costrizione “fiscale”. Avviene, invece, in un contesto educativo in cui ci sia una proposta chiara e concreta negli obiettivi, operativa nei contenuti e nei tempi, decisa nei toni, trasparente nelle ragioni, coinvolgente e tenace nelle attività. È il contesto dell’educare istruendo, dove lo studente non è un “contribuente vessato”, ma un protagonista educato anche dallo studio e nello studio a vivere da uomo libero, forte e lieto.

La domanda sullo studio in maggio è dunque domanda sulla proposta dello studio in ogni stagione: sul chi e per chi viene fatta la proposta, sui contenuti, le ragioni e le forme dello studio. È domanda sul docente come professionista dello studio (quello dello studioso, del ricercatore), sull’insegnamento come proposta, esigente e amorevole, il cui contenuto è applicarsi sistematicamente per approssimarsi sempre più alla verità di sé, degli altri e delle cose. Lo studio, in questa prospettiva, da proposta diventa progetto dello studente, si snoda come percorso, si attua come processo, si compie come prodotto e prosegue come promozione. È quella che chiamo “dinamica delle 6P dello studio” (proposta, progetto, percorso, processo, prodotto, promozione). Potremmo parlarne in altre occasioni.