Ieri un gruppi di allieve della scuola Morvillo Falcone di Brindisi era a Palermo, nell’anniversario della strage di Capaci. Sempre a Palermo è arrivata ieri la nave della legalità, salpata da Civitavecchia con a bordo il ministro Profumo e 1.500 ragazzi. Ad attenderli hanno trovato il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, anch’egli a Palermo per ricordare Falcone e Borsellino. La memoria dei fatti di sangue del ’92 e il dramma di un attentato che ha riempito l’Italia di sdegno hanno unito tutti nella convinzione che la vita civile è possibile solo se non viene meno il rispetto della legge. La scuola cosa deve fare? «Il parlare molto di legge non aiuta la legge», avverte Claudio Risé.
Perché il bisogno di legalità è oggi così sentito?
È normale che questo avvenga quando la legge è spesso violata e la sicurezza delle persone è minacciata. La vicenda di Brindisi ha dato un rilievo drammatico a questa necessità, perché ad essere attaccati sono stati i nostri corpi, la nostra integrità e dunque la nostra stessa esistenza. Quando le persone si sentono così minacciate, aumenta la richiesta di legge. E il bisogno di sicurezza si traduce anche in un bisogno di legalità.
Come e dove si impara il rispetto della legge e chi è in grado di insegnarlo?
Direi che prima di tutto si impara dall’esempio delle persone. Quando una classe dirigente dà un esempio costante di rispetto della legalità, questo costituisce un grande insegnamento. E poi vengono coloro che svolgono l’attività di giudicare: i giudici, con il loro comportamento innanzitutto pubblico cioè amministrando la legge con equità ed imparzialità, e con il loro comportamento privato. Essi sono grandi, potenziali testimoni della legge. Di grande importanza inoltre le figure educative: il padre e la madre giusti, l’insegnante giusto.
Dove comincia l’educazione alla legalità?
La prima legge da rispettare è quella in cui consiste la natura delle cose. Da questa, si passa alla legge scritta nei codici e quindi amministrata da un preciso apparato di giustizia. È evidente che chi svolge questo compito di interesse pubblico, lo fa bene nella misura in cui è «figlio» di quella prima esperienza.
La legalità deve divenire per forza una disciplina di insegnamento?
Farei una premessa: il parlare molto di legge non aiuta la legge, come il fare molte norme non porta assolutamente a uno sviluppo della legalità. Anzi la mette in pericolo, perché aumenta a dismisura la possibilità di violazione delle norme, diminuendo proporzionalmente il senso di legalità nel cittadino: cioè la responsabilità della persona nell’assoggettarsi alla legge, cominciando da sé, dall’essere giusto.
Perché dice questo?
Perché oggi le persone delegano sempre di più allo Stato qualcosa di cui dovrebbero essere amministratori in prima persona; non evidentemente il fare giustizia, ma sviluppare il proprio senso della legalità, e delle responsabilità che ne conseguono.
Che cosa la scuola dovrebbe o potrebbe fare?
Sviluppare il senso personale, interiore, profondo, della giustizia. La legge non si dovrebbe imparare a scuola ma in famiglia, là dove avviene la prima educazione all’ordine delle cose. È qui, come abbiamo detto, la radice interiore della legalità. Dopo di questo viene l’ambito culturale e socio-culturale. Poiché dal codice napoleonico in poi nel continente europeo le leggi sono aumentate a dismisura, è d’obbligo svolgere un’opera di discernimento − con la critica, l’esempio e l’esercizio − su tutto l’apparato statuale che presiede alla giustizia, se non altro perché non la danneggi gravemente.
Non basta quindi fare lezione di diritto nelle scuole.
Assolutamente no. Intendiamoci: conoscere la Costituzione è una buona cosa, ma è illusorio − dove non è deleterio − pensare che sia un insegnamento disciplinare ad essere centrale nello sviluppo personale del rispetto della giustizia. Se viene meno quest’ultimo, cosa ce ne faremo dell’erudizione giuridica?
Una studentessa liceale, in risposta agli appelli civili di Ferruccio De Bortoli e del ministro Profumo dopo l’attentato di Brindisi, centrati sul senso dello Stato, ha scritto: «io non voglio essere estranea alla mia vita, rimandando ad altri, o come in questo caso allo Stato, una responsabilità che è mia. Mio è il compito di rispondere alla vocazione che è la vita».
È un pensiero profondissimo, che va al cuore della nostra conversazione. Esprime una grande stima della vita e la interpreta come vocazione. Dimostra che la nozione di legalità precede ogni struttura di amministrazione legale. È questo che occorre fare: ridare spazio alla vita. Verso persone che hanno fatto una grande esperienza di morte e dunque di negazione della vita, come è accaduto alle compagne di Melissa, occorre prestare innanzitutto amore e ascolto, per ricostituire quello spazio.
Che cos’è lo spazio di cui sta parlando?
In casi come questo, in cui c’è stato un forte trauma (più forte e devastante, ma non sostanzialmente diverso dalle nevrosi da cui è affetto il paziente dello psicoterapeuta), occorre restituire alla vita l’ambito pieno e concreto della sua espressione, delle sue molteplici forme e manifestazioni. La nevrosi richiude la vita, restringe il suo spazio espressivo. Là dove si attenta all’integrità fisica della persona, questo lavoro di restituzione alla vita può rivelarsi più radicale, ma nella sua essenza si tratta della medesima cosa. Ogni impostazione ideologica, per esempio, riduce lo spazio della vita, costringendola dentro uno schema. La vita invece richiede spazi di libertà, quindi di responsabilità personale (come ricordava la studentessa nella sua lettera) per essere amata ed accolta: spazi di ascolto e spazi espressivi. Solo così la persona può tornare a stare bene.
Alla luce di questa considerazione, qual è il compito di un insegnante?
Ridare spazio alla libertà, in modo che la vita si manifesti attraverso l’esercizio concreto delle scelte personali. Educare è rendere consapevole la persona di questa possibilità e − appunto − dello spazio necessario alla sua realizzazione.
(Federico Ferraù)