Il concetto di generazione: un rapporto tra generanti e generati – Parlare di passaggi tra le generazioni è un modo di affrontare il tema della tradizione e della sua verifica cioè di una trasmissione che sia non meccanica ma, almeno in certa misura, consapevole e capace di critica costruttiva.
Nell’affrontare questo tema incomincio dal termine “generazione”. Cosa significa? Generazione è un termine polisemico, cioè portatore di più livelli di significato.
In questa sede ne distinguo tre: 1. coloro che sono nati in uno stesso periodo (ad esempio coloro che sono nati nel 1950, oppure i teen agers). In questo caso generazione significa coorte demografica; 2. coloro che sono stati segnati da uno stesso fenomeno sociale saliente (ad esempio la generazione del ’68); 3. coloro che hanno una collocazione nella catena generazionale familiare e, per estensione, sociale. Ad esempio la generazione dei genitori e dei figli e il loro rapporto con la generazione degli adulti e dei giovani.
Questo ultimo significato è sorgivo, sta cioè alla radice di tutti gli altri e collega generazione con generare nel duplice senso di generanti e generati. Generazione indica un fenomeno che è per eccellenza relazionale, indica il legame primario che lega gli esseri umani.
Il rapporto tra generanti e generanti può essere inteso in un primo senso, come più sopra indicato, come rapporto tra persone legate da rapporti di ascendenza/ discendenza. Esso fa riferimento alla catena generazionale che ci riporta alla nostra genealogia (un’altra parola che si richiama alla radice “gen” che è presente in “generare”, “genere” e “generazioni”).
Il rapporto generanti-generati è alla radice del principio di autorità: la catena generazionale è su un asse verticale, è gerarchica: la generazione che precede ha responsabilità nei confronti di quella che segue, poiché contribuisce in modo determinante a creare le condizioni di vita materiali, ambientali, culturali, sociali entro le quali cresceranno quelle che seguono.
Ma la generazione come rapporto tra generante-generato è talmente strutturale al nostro essere che la troviamo al centro della nostra identità: infatti i generanti sono sempre generati, i genitori sono sempre figli, chi ha dato vita alla nuova generazione è figlio della precedente. In questo senso la tradizione è al cuore dell’identità del soggetto e il suo misconoscimento toglie, per così dire, un pezzo al proprio consistere, un pezzo che per giunta sta all’origine. Se non tutti siamo genitori, tutti siamo figli di chi ci ha dato la vita e della cultura che ha dato le categorie mentali, affettive ed etiche (nel senso dell’ethos) per significarla. Fare i conti con la tradizione non è perciò un’optional; vuol dire fare i conti con la propria storia familiare e di popolo e con l’humus simbolico che l’ha nutrita. Chi ha alunni che provengono da altre culture capisce immediatamente questo: non c’è possibilità di comprenderli se non si capisce da dove vengono, che significato hanno certi eventi, certi comportamenti, certi rituali, certe cerimonie. Ma questo vale anche per noi allo stesso modo. Nel caso di chi viene da lontano, la distanza sollecita un lavoro di comprensione, di decodificazione. Nel nostro caso siamo portati a dare per scontato, a non fare questo lavoro.
Ho avuto la grande fortuna di poter frequentare per molti anni i nonni di mio marito (i bisnonni dei nostri figli) che sono morti centenari. Ho a lungo parlato con la bisnonna, mi ha fatto capire il suo mondo e ho capito molto meglio il mondo di mio marito che era cresciuto in un paese, a differenza di me nata e vissuta da più generazioni in città. Certi suoi comportamenti e atteggiamenti verso la religione, ad esempio, che a me parevano poco significativi si sono rivelati sotto un’altra luce. Chiedere a lui serviva poco, forse gli erano giunti senza l’esperienza che li aveva prodotti. Ma avevo lì presente la sua tradizione incarnata nella vita dei suoi nonni: l’ho interrogata, mi ha risposto.
Noi non interroghiamo la tradizione perché, in un clima di esasperato individualismo, ci sentiamo scollegati dalla generazione precedente e la generazione precedente da parte sua si ferma ai cambiamenti, pur importanti, che sono avvenuti nel nostro modo di vivere (e che segna soprattutto i giovani), senza avere il coraggio di andare al cuore della costruzione della loro identità. Tutto passa da una generazione all’altra ma può rimanere sullo sfondo, latente se quello che passa non è accompagnato da una esperienza che la faccia rivivere. Non dobbiamo mai pensare che chi abbiamo davanti sia totalmente estraneo al patrimonio che gli è arrivato anche se non lo riconosce o non lo sa dire. Il patrimonio c’è, è in latenza, è sepolto, va fatto rivivere. E qui sarebbe bello poter approfondire il tema del riconoscimento, del ri-conoscere. Tante delle parole importanti hanno il prefisso “ri” a dire di qualcosa che va continuamente generato, anzi ri-generato.
Trasmettere e tramandare − Tutto passa, ma c’è passaggio e passaggio, ci sono passaggi che consentono rigenerazione e passaggi stagnanti, involutivi, in qualche modo mortiferi.
Nel nostro vocabolario, sempre così ricco, abbiamo due termini per dire della dinamica del passaggio: trasmettere e tramandare. Dei due preferisco il secondo perché ha a che fare con il patrimonio simbolico, mentre il primo ha a che fare col patrimonio materiale che peraltro ha la sua importanza, perché posso trasmettere il patrimonio genetico, i beni materiali ma anche lo status.
Tra-mandare indica un azione che avviene tra due persone o tra due generazioni. Implica perciò un passaggio che ha non un solo protagonista ma due “attori” anche se l’uno in posizione gerarchica, come abbiamo visto, rispetto al secondo.
Quale allora la dinamica che accompagna il processo col quale si tramanda il patrimonio simbolico (1)?
Possiamo, semplificando, immaginare tre esiti (due estremi, disfunzionali ed uno al centro che rappresenta la strada positiva) di questo tramandare, di quello che avviene tra “chi consegna e chi riceve”. “Betweeen give and take, così suona un bellissimo testo di Boszormenyi-Nagy e Krasner, due psicologi che hanno visto la famiglia come corpo intergenerazionale innervato da “fibre invisibili di lealtà”, e che cito spesso perché vicino alla prospettiva relazionale-simbolica di lettura dei legami familiari che è quella che ho elaborato con Vittorio Cigoli e i miei più stretti collaboratori del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia a cui oggi fanno riferimento ormai in molti.
1. Un primo esito lo possiamo classificare come replica. È il caso di un passaggio rigido del patrimonio da una generazione all’altra. È tipico delle culture chiuse e fortemente gerarchiche. Va detto però che non avviene mai allo stato puro perché le nuove generazioni hanno sempre una certo spazio di cambiamento.
2. Ci interessa più l’altra soluzione estrema a noi più vicina. È il caso della frattura tra le generazioni, e in particolare quella ancor più pericolosa della scissione tra le generazioni. Quando infatti la frattura assume la forma del conflitto si ha comunque lotta, si ha un cum-fligere, la lotta può tendere ad eliminare l’altro ma l’altro c’è, nel lottare se ne afferma la presenza. Più subdola è la scissione, la presenza dell’altro non è riconosciuta, non ne è riconosciuta l’importanza nella costruzione e realizzazione del proprio io e della propria identità. Vive oggi sotto la forma dell’autogenerazione. Autorealizzarsi è il must odierno di un individuo che suppone la propria realizzazione come un dispiegamento, uno srotolamento di sé. Il mito auto-generativo (2) così diffuso ha nella clonazione la sua forma emblematica. L’autogenerazione non è né pro-creazione, né tanto meno generazione; è piuttosto riproduzione, nel senso letterale di riprodurre l’identico, il doppio identico: una cosa psichicamente assai conturbante come è sempre del doppio (3).
Vive in forma simbolico-culturale in molte nostre rappresentazioni, si pensi al self-made man e a tutte quelle rappresentazioni del vivere omologanti che negano l’altro in quanto differente da me, negano perciò quello che ci precede e che perciò stesso non è mio prodotto. Tutti noi in quanto figli del nostro tempo ne siamo più o meno contagiati, così la giovane coppia pensa di essere l’alba del nuovo giorno e non vede la storia che l’ha generata, così i genitori non vedono il figlio come nuova generazione ma solo come prolungamento di sé (una forma sottile di autogenerazione).
La scissione è l’ultimo ed inevitabile esito di una concezione di individuo che è monade, a differenza della nostra tradizione che ci parla invece di persona cioè essere in relazione. Essa è dentro i soggetti, ma anche tra i soggetti e tra corpi sociali. In particolare dobbiamo riflettere sulla scissione tra familiare e sociale, la quale ha effetti palpabili sul rapporto famiglia e scuola.
Ecco in breve: gli adulti hanno comportamenti scissi nei confronti delle nuove generazioni, si comportano in maniera opposta in famiglia e nel sociale. In famiglia il figlio è visto fondamentalmente come un soggetto da proteggere, anche ben oltre l’età in cui tutto ciò è auspicabile, in linea con la percezione del figlio come rispecchiamento di sé e prolungamento della propria vita. Il gap generazionale è, per così dire, superato da un avvolgimento accuditivo centrato sull’affetto (ma sarebbe più corretto dire sull’emozione che è l’affetto quando perde la sua direzione, il suo senso) e su forme sottili di controllo. Nel sociale gli stessi adulti (che sono poi quelli che in famiglia sono i genitori) tendono ad essere espulsivi verso i giovani, lasciano poco spazio ad essi, continuamente procrastinano il loro inserimento nella società e colludono con l’inerzia di molti giovani. Se leggiamo questa inerzia in senso generazionale essa però ci appare non tanto un fattore di mutamento antropologico dei giovani di oggi ma piuttosto il sintomo di uno scambio, di un passaggio tra le generazioni infruttuoso perché all’insegna della scissione. Vediamo così tanto spesso il genitore colludere col figlio, schierandosi con lui contro l’altro adulto, per esempio l’insegnante, invece che condividere la responsabilità educativa (ognuno ben inteso secondo il proprio ambito) verso le nuove generazioni.
3. E veniamo al centro, al passaggio positivo, alla modalità generativa di trasferimento dei patrimoni. Possiamo chiamare questa modalità di tra-mandare “rinnovamento delle origini”. Rinnovamento è molto meglio di innovazione. È una innovazione che è nella linea della continuità, e non della scissione e frattura, ma neppure della replica. Ci dice di una novità che non è dimentica di ciò che l’ha preceduta. Questa posizione alberga in chi sa che ricomincia da capo ma non ricomincia da zero. Ogni essere umano è un nuovo cominciamento, la nascita di un essere umano, ci ricorda splendidamente Hannah Arendt, è l’emergere nel mondo del nuovo, ma il nuovo è generato anche se eccede (infatti è accompagnato da stupore) chi l’ha generato. Ogni generazione è un nuovo cominciamento, ha il compito di riscrivere la storia con propri accenti ma non può farlo se non a partire dalle proprie appartenenze, dalle proprie origini, innovandole e trasformando il patrimonio che le è stato consegnato. Gli adulti, i generanti siano essi genitori o chi ha una funzione generativa (come è sicuramente quella degli insegnanti) hanno perciò non solo un compito diretto verso le generazioni a loro successive ma anche un compito verso le precedenti, di “mediazione generazionale” (il “tra” del tramandare) di trasformazione, risignificazione della tradizione, vuoi famigliare (e questo compete soprattutto ai genitori), vuoi culturale e sociale e questo tocca soprattutto agli insegnanti o a chi ha una funzione educativa-culturale. Diciamo meglio: esercitare appieno il compito responsabile verso la generazione successiva non può essere svolto se contemporaneamente non si esercita questa funzione di “continuità innovativa”, di traghettamento dal passato al presente, verso il futuro, verso il passato. Si tratta di rendere familiare quel che è lontano nel tempo.
Pensare per generazioni è un bel modo di pensare e di porsi nella condizione di “verifica della tradizione” e di coscienza critica. È un pensiero che sa tra-passare e tra- mandare, che sa muoversi in avanti e indietro. Vedere l’altro, figlio, alunno… come nuova generazione vuol dire vederlo in termini pro-creativi, pro-gettuali, in un moto vitalissimo che prefigura una mission. Questo è in fondo educare, e-ducere, tirar fuori quel che è al nostro fondo, che sta lì in potenza ma che non è tabula rasa bensì patrimonio ereditato, per condurlo (ecco il ducere) non a sé (si tratta in questo caso di se-ducere, una forma di seduzione) ma per introdurlo nella realtà, per lanciarlo in avanti perché… perché a sua volta faccia altrettanto. La tradizione ha valore non in quanto contenuto fisso, ma in quanto riesce ad essere tra-mandata.
Pensare per generazioni vuol dire perciò vedere l’alunno non solo come destinatario del proprio impegno e della propria azione (in una prospettiva duale tipica del binomio alunno/insegnante) ma vederlo come portatore di un progetto che accomuna. Il messaggio che passa è perciò questo: ti consegno il patrimonio perché tu lo faccia fruttare e perché tu lo trasmetta e tramandi a tua volta. Questo è un vero lanciare in avanti, questa è una vera forma emancipativa, non la sterile autorealizzazione: se tutto nasce da me e finisce a me in un circolo chiuso, tutto implode.
Il compito: contrastare lo stallo generazionale e favorire nuovi inizi − Cosa può aiutarci a contrastare questo pericoloso stallo che vede le generazioni separate le une dalle altre, ferme, magari protettive ma prive di progetto per sé e per chi ci è accanto e responsabilmente affidato?
Pensare per generazioni, questo è il primo compito culturale. Incentivare alleanze tra adulti, questa è la prima azione da intraprendere. Se è difficile trovare il maestro, quello carismatico che la vita concede poche volte di incontrare, è possibile cercare e creare una fratellanza generativa tra adulti che condividono la stessa condizione e responsabilità verso la generazione successiva. Tale responsabilità è un compito che compete all’adulto in quanto tale in primis a chi ha un ruolo educativo. Nessuno si può sottrarre a questa generatività sociale che consiste nel creare un ambiente umano (cioè che si prende cura dei legami) che sia capace di conservare e rinnovare il patrimonio simbolico della cultura di origine e porgerlo alla generazione successiva. Quest’ultima, da parte sua, va chiamata da subito in causa, facendole spazio. Interrogare il passato ma anche interrogare il nuovo che si affaccia costruendo insieme nuovi patrimoni.
“C’è bisogno di un villaggio per far crescere un bambino”, questo dice un bel proverbio africano. C’è bisogno comunque di un villaggio per crescere, perché la crescita, lo sviluppo tocca tutte le età della vita.
Ma la condizione è quella espressa da J. W. Goethe: “quel che hai ereditato dai tuoi padri guadagnatelo, per possederlo”. Non si può evitare la fatica, il sacrificio, non si può evitare a sé e non si deve evitarlo a chi ci è affidato.
(1) Patrimonio deriva dal patris-munus, un dono paterno, un dono che al tempo stesso rende debitore come è della etimologia di munus.
(2) Esso, oltre che narcisistico, cioè centrato solo su sé si ammanta anche di onnipotenza perché elimina l’altro, essenziale per generare e che è perciò stesso segno del nostro limite.
(3) Il mito auto generativo è presente in forme diverse anche in molte altre culture, si pensi per esempio alla cultura greca che si immaginava la procreazione come frutto solo del seme maschile e che confinava l’apporto femminile come puro contenitore, utero.
Il testo presentato è la relazione tenuta dall’Autrice in occasione del convegno “Il tempo della ragione: verifica della tradizione e coscienza critica”, organizzato dall’Associazione culturale “Il Rischio Educativo” sabato 10 marzo 2012 all’Università Cattolica di Milano.