L’esperienza traduttiva nella scuola degli antichi – Perché tradurre a scuola? Ha senso spendere tante energie da una parte nell’insegnare a tradurre e dall’altra cercare di imparare? Se sempre occorre riflettere come insegnanti su una pratica didattica, lo è ancora di più se si è provocati da un dibattito franco come quello presentato su queste pagine. Sono un semplice docente che da 20 anni ha a che fare con questa questione e vorrei condividere le riflessioni frutto della mia esperienza.



Prima di entrare nel merito, mi sembra però indispensabile liberare il dibattito sulla traduzione da significati non propri, direi quasi “ideologici”. 

Uno lo ricorda Milanese: traduzione “fine supremo” dello studio della materia. Evidentemente ponendo la questione in questi termini l’accettazione o il rifiuto della pratica traduttiva coincide con l’accettazione della finalità propria  per non dire principale della disciplina.



Anche una difesa della “scientificità” della traduzione (egregiamente sostenuta da Antiseri, sul Corriere del 24 febbraio e ripresa su queste pagine da Cecilia Bellucci) è lodevole nel suo intento apologetico, assolutamente condivisibile come exemplum di problem solving distinto dal semplice addestramento, ma non entra del merito dell’efficacia didattica.

Pare più pertinente chiedersi che cosa intendiamo per traduzione (distinta ovviamente dalla comprensione). Spunti di riflessione sull’argomento per limitarci al dibattito su queste pagine sono già stati offerti ai lettori da Gobber e Milanese e non è necessario dilungarsi. Io mi limito a sottoporre osservazioni di pratica didattica e dati di fatto.



Qualunque opinione si abbia sull’argomento occorre innanzitutto tenere presente che la traduzione è comunque richiesta anche nelle recenti indicazioni nazionali ed è la seconda prova dell’esame di stato nel liceo classico. Non esiste poi nella prassi scolastica un’unica idea di traduzione, ma essa assume diversi valori a seconda dei momenti in cui è collocata: decisamente più strumentale nei primi momenti, con una particolare cura nella comprensione testuale e nella resa nella lingua di arrivo (L2) in fine percorso. Inoltre, anche se non è sempre chiara la sua funzione (apprendimento di una lingua o verifica di un avvenuto apprendimento?), la tradizione didattica italiana ci consegna una impostazione prevalentemente traduttiva mentre, come ricorda Milanese, in altri contesti ci si sta orientando in altre direzioni. Non mancano, come nella mia esperienza personale, tentativi di “contaminazione” tra le diverse metodologie (metodo natura con manipolazione endolinguistica, approccio traduttivo con potenziamento dell’aspetto lessicale), con scandalo forse dei puristi di un unico metodo, ma con provata efficacia didattica. Non si può Infine ignorare che molti, pur passando dalla famigerata traduzione, non solo sono sopravvissuti ma hanno anche imparato il greco e il latino. Il fallimento nella didattica delle lingue classiche a cui ogni tanto si allude dunque non pare completo.

Spesso poi chi sostiene che siamo di fronte ad un “fallimento” dell’insegnamento delle lingue classiche, attribuisce la responsabilità maggiore alla traduzione. A mio avviso però la traduzione viene utilizzata come “capro espiatorio” di una impostazione didattica sì vecchia e passatista: intendo l’accostamento ai testi classici unicamente come palestra grammaticale o erudita, o campo di applicazione di un filologismo fine a se stesso. Uno studio del genere allontanerebbe l’interesse di ogni ragazzo “di buon senso”. 

Il dibattito sulla traduzione ha spesso avuto origine, in passato come ora, a partire da una insoddisfazione sulla prassi didattica, in particolare sull’interesse degli alunni e sui risultati ottenuti. Lo stesso Ørberg − autore del corso cui largo spazio è stato dedicato su queste pagine con articoli di Miraglia, Montecchi e Tanca − mi ha confessato personalmente  che ha preso le mosse proprio guardando gli alunni svogliati di fronte agli esercizi di latino. Tale è anche la spinta ideale di Miraglia che attraverso Vivarium Novum ha contribuito alla diffusione del metodo natura in Italia. Tale è anche la sempre viva preoccupazione di Flocchini e Bacci con cui ho spesso collaborato. Tale la spinta innovativa in generale del rinnovamento che si riscontra nell’editoria scolastica e nelle proposte delle indicazioni nazionali.

Premesso ciò, vorrei inserirmi nel dibattito partendo da un altro punto di vista. Per affrontare con serenità  la questione  può essere utile  far tesoro di qualche osservazione  sulla pratica traduttiva nella scuola antica. 

Girolamo, il famoso traduttore della Bibbia, definisce la traduzione in latino di testi greci un’antica usanza propria delle persone esperte nell’arte della parola. Sottolinea da un lato la difficoltà della pratica ma dall’altro l’utilità testimoniata dal comportamento di Cicerone che ha tradotto Platone, Arato, Senofonte. In effetti Cicerone dopo aver trattato della parafrasi (cioè della traduzione  endolinguistica) e dei possibili inconvenienti di questo esercizio, primo fra tutti l’uso improprio del lessico, affronta il tema della traduzione (cioè della traduzione interlinguistica) spiegando analiticamente in che cosa consisteva il tradurre le orazioni greche dei massimi oratori: dopo aver letto il testo si doveva tradurlo ponendo una particolare cura nella scelta del lessico, dal momento che sono accettabili solo i vocaboli in uso o i neologismi formati sul modello della lingua latina. In termini moderni diremmo: non inventiamoci una lingua artificiale per essere “fedeli” alla traduzione.

Quintiliano fa eco a Cicerone sostenendo che è chiaro il valore di questo esercizio. Secondo Quintiliano infatti attraverso la traduzione si gareggia col modello. Tradurre è un po’ come entrare nell’officina nell’autore, scoprirne le tecniche di codifica, “smontare il prodotto” che si apprezza per provare a riprodurlo in proprio, scoprendo che le lingue sono diverse e che non solo occorre un’attenzione al lessico, ma anche alle figure retoriche usate dall’autore che si cerca di tradurre e che magari suonano strane nella propria lingua. Secondo Quintiliano dunque vale la pena di tradurre i testi greci perché sono  ricchi di argomenti e di abilità tecnica: il  traduttore però  deve usare  le parole  “più opportune” (cioè quelle davvero latine) e, se necessario, mutare le figure retoriche, dato che non c’è una perfetta corrispondenza tra le due lingue. È evidente che Quintiliano e Cicerone stanno trattando di un livello avanzato di traduzione. 

Ma sempre Quintiliano tratta altrove anche dell’approccio elementare alla pratica traduttiva dalla lingua greca. Le traduzioni sono intese da Quintiliano come “primi esercizi di eloquenza” e sono destinati dal maestro ai “i ragazzi, i quali per l’età non sono ancora in grado di intendere la retorica”. Secondo un principio di gradualità nella didattica si parte dalle favolette di Esopo.

Quintiliano propone questo metodo: facendo attenzione al lessico occorre innanzitutto approntare una sorta di traduzione parola per parola; quindi tradurre “più coraggiosamente” ovvero riassumerlo oppure ornarlo mantenendo il senso. Per Quintiliano sembra quindi che non esista ai primi livelli di apprendimento un solo tipo di traduzione ma che, colto il senso, l’operazione traduttiva può avere diverse sfaccettature.

Anche Plinio sottolinea l’utilità della pratica traduttiva per lui non solo dal greco in latino ma anche dal latino al greco. Attraverso la traduzione ci si procura una maggiore abilità nell’uso del lessico, delle figure retoriche, nella spiegazione, nell’imitazione, ma soprattutto nella attenzione alle caratteristiche linguistiche dei testi che “possono sfuggire a chi legge ma non a chi traduce”. Secondo Plinio infine tradurre potenzia le facoltà intellettive.

La traduzione greco latina o addirittura latino greca era quindi prassi consolidata, ritenuta valida universalmente, accettata, diffusa, ritenuta elemento utile per la formazione dell’uomo di cultura. Evidentemente non era l’unica! Ma non era snobbata. 

L’esperienza traduttiva nella scuola di oggi − Avere guardato con occhio distaccato la traduzione penso possa essere servita a giudicare con più serenità la questione. Penso che sia fuori discussione l’utilità strumentale nell’apprendimento, nel potenziamento (o anche nella  verifica) delle competenze linguistiche e testuali. Pare poi di intravedere nella traduzione anche una utilità pedagogica: si tratta di riconoscere con umiltà che esiste un altro diverso da sé, che vale la pena affrontare la fatica di capire il suo mondo, di comprendere fino in fondo e non solo approssimativamente il suo messaggio. Si tratta insomma di un’educazione al rispetto di un senso altro da scoprire, accettare e riconoscere, entrando in un mondo altro di cui non si fa parte. Se gli esercizi endolinguistici sono utili anzi indispensabili per la “immersione” di cui parla Milanese, per conoscere e manipolare una lingua dall’interno, la traduzione a mio avviso mantiene la sua valenza educativa nel sottolineare l’alterità oggettiva che solo una metodologia contrastiva mette in risalto. Non si tratta di tradurre in un improbabile “grechese” o “latinese” (rischio sottolineato anche dagli antichi latini che dovevano tradurre dal greco in latino), ma al contrario di mantenere il più possibile del testo di partenza. In quest’ottica, anche la traduzione nella scuola può e deve essere intesa come chiave di accesso privilegiata ad una lingua, ma soprattutto come chiave di accesso attraverso la lingua ad una civiltà, anche in un primo anno di greco o latino. Staccata da un contesto reale la traduzione appare sì uno sterile esercizio insensato e quindi disumano e inaccettabile. Mantiene invece tutto il suo valore se legata ad una verità. Questo dovrebbe essere un criterio con cui valutare ogni attività, da intendere come sostiene Antiseri non come “esercizio” ma come “problema”.

Certo, è possibile accostare una civiltà non in lingua originale: ma quanto si guadagna potendo leggere direttamente la lingua in cui sono stati scritti certi testi?

Un’ultima considerazione legata all’esperienza personale: la traduzione come processo di approssimazione al vero è per i ragazzi affascinante, la traduzione come esercizio imposto da chi possiede un insieme di competenze precluse ad altri, come esercizio di potere di chi conosce il latinorum, è ovviamente insensato.

 

Dal ragionamento esposto, mi sembra che si possa concludere che certo la traduzione può essere occasione per ri-prendere, ri-comprendere i contenuti grammaticali, ma se la riduciamo a unica e principale verifica di apprendimento di strutture sintattiche, magari con frasette o testi al limite dell’insensatezza mi sembra che travisiamo e tradiamo tutto il suo potenziale didattico ed educativo.  Inoltre soprattutto nel primo biennio fornisce un insostituibile strumento per fare esperienza di impatto con un  dato oggettivo con cui confrontarsi, di cui comprendere consapevolmente i meccanismi di codifica e di decodifica. 

Nella prassi didattica l’esperienza del Laboratorio di traduzione si rivela sempre interessante, in particolare nei corsi di recupero le persone che lavorando col docente imparano l’arte per imitazione, per tentativi e progressivo aggiustamenti delle ipotesi. La lettura degli autori in lingua è poi l’occasione di vedere a frutto il lavoro sulla traduzione: se nel primo biennio offre al docente l’opportunità di mostrare e proporre un “modello di traduzione”, nel secondo biennio e nell’ultimo anno, soprattutto se preceduta da una pre-traduzione, è occasione di confronto, discussione e dialogo con l’insegnante e tra i compagni per l’interpretazione corretta di un testo. Soprattutto nell’ultimo anno è didatticamente efficace confrontarsi nella resa di alcuni passi con autorevoli traduttori: interessanti sono i giudizi e le discussioni su come è stato interpretato il testo di partenza. 

Più che la semplice “correzione” di una versione tradotta a casa o “dettatura” della traduzione giusta, è utile nel lavoro in classe sottolineare le diverse fasi di approssimazione al senso del testo in L1 fino ad arrivare a quello in L2: comprensione, traduzione provvisoria, preparazione di un testo sostitutivo, leggibile nella lingua di arrivo. Occorre una messa a fuoco delle conquiste di senso acquisite dalla traduzione, suggerite da comprensione globale del testo, individuazione di parole chiave, ipotesi di senso, traduzione, scarto rispetto alle ipotesi, ammissione del deficit (di bellezza, di senso, di pregnanza espressiva, stilistica…) rispetto al testo in L1, di problemi di resa, in particolare di testi poetici.

Ottimo mi pare poi accompagnare la traduzione nei livelli bassi da un riassunto che testimoni il trasferimento di senso e in quelli alti con un commento che renda ragione del senso del testo nel contesto delle proprie conoscenze dell’autore o comunque della storia letteraria e culturale. Perché non rendere obbligatorio un commento associato alla traduzione di un testo come in alcune (ex)sperimentazioni, anche nell’esame conclusivo?

In conclusione, come mi sembra che si sia delineato dal franco dibattito in corso,  se mi pare che errino coloro che arrivano a subordinare alla traduzione ogni sforzo a scapito di una sensibilità letteraria e culturale, altrettanto mi sembra che coloro che cercano di estromettere la traduzione dalla prassi didattica rinuncino o meglio facciano rinunciare a qualcosa i loro studenti. Mi sembra che si limitino ad avvicinarsi e a far avvicinare ad un testo. 

Non “rischiano” di  far entrare fino in fondo, di “penetrare” nel senso del messaggio di un altro, di un’altra lingua, di un altro tempo, di un altro mondo insomma. Soprattutto pare che non abbiano la fiducia di potere insegnare a  renderlo nella propria lingua di oggi, facendo i conti, cioè rispettando e non forzando né “tradendo” ciò che l’altro intendeva comunicare. “Il rischio è bello” diceva Platone. Ma si troverà ancora qualcuno che, al di là dell’indicazione ministeriale, “duri la fatica” di insegnare e imparare veramente a tradurre?

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