Il dibattito sulla dotazione effettiva di capitale umano del nostro Paese, malgrado le inequivocabili evidenze empiriche disponibili, continua a proporre tesi discutibili. Il prof. Giuseppe Bertagna, in un intervento pubblicato su IlSussidiario.net il 23 maggio, sostiene che le analisi in base alle quali la quota di laureati in Italia è molto bassa a confronto con il resto dei paesi Ocse e della Ue si baserebbero su una lettura non corretta dei dati Ocse, in quanto nel calcolo verrebbero inclusi, per gli altri paesi, anche i laureati che seguono corsi post-diploma di tipo professionalizzante, corsi che, nel panorama italiano, caratterizzato solo da corsi di tipo generale, sono assenti.
L’autore, senza fornire dati a sostegno della propria tesi che, peraltro, non offre spazi a dubbi, conclude che: “Al netto di queste differenze, quindi, i nostri laureati, magistrali e triennali, non sono, mediamente, in numero inferiore rispetto a quelli degli altri paesi europei”. In particolare, questa presunta anomalia nella misurazione viene proposta con riferimento al confronto Italia-Regno Unito.



Peccato che le cose non stiano così. Nella classificazione internazionale i programmi post-secondari di tipo professionalizzante vengono inclusi nella categoria della formazione terziaria di tipo “5B”, mentre quelli di tipo generalista vengono inclusi nella categoria “5A”. Anche a prescindere dai limiti della classificazione Isced, che esclude dal computo dei corsi professionalizzanti alcuni indirizzi di studio di primo livello somministrati in Italia, che andrebbero inclusi nella categoria 5B (per esempio le lauree nelle professioni sanitarie sono invece comprese nella categoria 5A), come risulta dalla tabella 1 tratta dalla pubblicazione Ocse “Education at a Glance” del 2011, il confronto è impietoso, non solo con la media dei paesi Ocse, europei e ai G20, ma anche con il Regno Unito. Nell’ambito dei corsi di tipo “5A” il Regno Unito ha una quota quasi  doppia di laureati sia nella classe d’età 25-34 anni sia in quella 25-64 anni. 



Questa conclusione non comporta che non si ritenga utile rafforzare in Italia anche l’offerta post-secondaria nel segmento 5B.
Un’altra tesi che non trova sostegno nei dati e nelle analisi è quella secondo la quale in Italia ci sarebbero pochi diplomati negli indirizzi professionalizzanti. Il fatto che alcune figure professionali, pur in presenza di disoccupazione, siano di difficile reperimento, non significa di per sé che vi sia un eccesso strutturale di domanda di diplomati degli istituti tecnici e professionali.


(International Standard Classification of Education – UNESCO)



Con ciò non si vuole negare che vi siano gravi patologie nel funzionamento del mercato del lavoro che rendono inefficiente l’incontro tra domanda e offerta di  capitale umano, le cui cause però sono riconducibili a pratiche e comportamenti sia dal lato dell’offerta (famiglie, sistema della formazione) sia da quello della domanda (imprese, con riferimento alle modalità di selezione, al reclutamento e alla incentivazione del personale, agli investimenti in formazione). Né si vuole negare che l’offerta di competenze di tipo professionale possa talvolta non essere all’altezza delle aspettative delle imprese.

Ciò detto, vi sono numerose evidenze tra loro convergenti nel confutare la tesi dell’intervistato. In primo luogo, l’assenza di un eccesso di domanda di diplomati negli indirizzi professionalizzanti è dimostrata dai dati sulla disoccupazione per titolo di studio. Questi ci dicono il contrario, e questo eccesso di offerta di diplomati è precedente alla crisi iniziata nel 2009 e riguarda diverse centinaia di migliaia di diplomati, molti di loro con esperienze di lavoro alle spalle. Secondo i dati Istat, nel 2011 il totale dei diplomati disoccupati era di circa 900mila persone, in gran parte provenienti da istituti tecnici e professionali.

Pur ipotizzando che una fetta di questo esercito possa presentare competenze, anche per ragioni di età, non appetibili per le imprese (quelli nella fascia d’età 15-34 anni erano circa 560mila), residuano comunque alcune centinaia di migliaia di giovani e meno giovani diplomati provenienti dai percorsi professionalizzanti che hanno difficoltà nel trovare un lavoro. Inoltre, se vi fosse una situazione opposta, questo si dovrebbe registrare anche nelle dinamica delle retribuzioni: se i diplomati fossero una merce così rara, le retribuzioni dovrebbero aumentare di conseguenza. Infine, i dati Istat sul sotto-inquadramento dei lavoratori segnalano che il problema non riguarda solo i laureati ma anche i diplomati negli indirizzi professionalizzanti.

Sicuramente, come propone l’intervistato, tutto ciò dipende dalla nostra struttura imprenditoriale, caratterizzata dalla prevalenza di micro e piccole imprese. Ma se questi sono i dati e le evidenze, la conclusione implicitamente proposta dal prof. Bertagna, che occorre adeguare il sistema di formazione alle esigenze attuali delle micro e piccole imprese italiane (specializzate in settori a medio basso contenuto tecnologico e a prevalente gestione famigliare), comporterebbe che dovremmo puntare a convincere numerose famiglie italiane ad accettare l’idea che la propria prole debba conseguire solo la scuola dell’obbligo. Che abbia ragione il collega Bertagna?