Il prof. Francesco Ferrante, richiamando i dati Ocse, difende sul Sussidiario del 28 maggio la nota tesi che vuole il nostro Paese a corto di laureati e di diplomati. Nessun dubbio che abbia ragione per la coorte adulta. Sarebbe però opportuno fare un’analisi più sofisticata per la coorte giovanile. In questa direzione, vorrei attirare l’attenzione su alcuni aspetti e anche su alcuni interrogativi che mi auguro possano suscitare un adeguato dibattito.



A) Chiamare “giovani” le persone tra i 25 e i 34 anni potrà essere, visti i nostri tempi, una ragionevole formalizzazione dell’esistente per statistici, demografi, sociologi ed economisti, ma è certo una forzatura di cui non andare orgogliosi per il buon senso e per la pedagogia. “Giovani”, da questo punto di vista, infatti, senza scomodare Rousseau, si è, e al massimo, fino ai 25 anni. Viceversa si darebbe ragione a Witold Gombrowicz secondo il quale, come è noto, “l’immaturità e l’infantilismo” sarebbero “le categorie più efficaci per definire l’uomo moderno”. Un mondo popolato soltanto da Alice nel paese delle meraviglie o da Peter Pan, del resto, non pare il migliore dei mondi possibili.



B) Se leggiamo i dati Ocse fino a questo traguardo di età e accorpiamo i dati dei laureati non per media (si sa che le medie ricordano giustamente Trilussa: basterebbe, per esempio, eliminare i due piccoli paesi Ocse che, per continuare l’immagine di Trilussa, mangiano un pollo a testa, cioè che vantano il maggior numero di laureati, per avere una media parecchio diversa da quella che ci penalizza), ma per mediana scopriremo che l’Italia è non poi messa così male come si vuole e si tende a far credere. Se, inoltre, si raffinassero ulteriormente i dati (per l’Ocse e numerose altre statistiche disponibili, ad esempio, laureati e laureati magistrali sono la stessa cosa), potremmo avere addirittura qualche sorpresa: da paese comparativamente povero di “laureati”, ci troveremmo con un paese, sempre comparativamente, tutto sommato sazio di “laureati magistrali”.



C) Analisi analoghe si potrebbero riproporre per i diplomati. Da noi, ci si diploma dopo ben 13 anni di scuola. E per di più, per la maggior parte, in maniera “generalista”. Siamo sicuri che il mercato del lavoro e la dinamica sociale abbiano bisogno di competenze e di professionalità come quelle costruite in questi diplomi sui quali noi abbiamo molto investito, ma che, nonostante questo, continuano a produrre bocciati, dispersi e, soprattutto, sviliti ed auto svalutati in percentuali a dir poco inaccettabili? 

Come mai negli altri paesi i diplomi si acquisiscono, invece, con un numero di anni di formazione che corre addirittura da 10 a 12 ed hanno tassi di professionalizzazione più alti dei nostri? Perché poi da noi l’unico percorso formativo che garantisce e avrebbe garantito il diploma a 18 anni, ovvero il percorso di istruzione e formazione professionale previsto dal combinato disposto riforma del Titolo V e riforma Moratti, è stato sabotato con una sistematicità degna di miglior causa ad ogni livello? Perché, sempre da noi, il percorso formativo in apprendistato che dovrebbe rilasciare qualifiche professionali a 18 anni, diplomi professionali a 19 e diplomi professionali superiori tra i 20 e i 21 anni, nonostante sia stato formalmente istituito dal combinato disposto legge Moratti-legge Biagi del 2003 e ribadito dal ministro Sacconi nel 2011 è ancora di là da venire?

Forse, rispondere a questi interrogativi significa capire perché le statistiche Ocse consentono di continuare a riproporre la liturgia dei pochi diplomati e laureati che abbiamo. Ma soprattutto significa anche capire perché, da noi, da un lato, la rivendicazione della pari dignità educativa e culturale dei percorsi formativi secondari e terziari sia stata trattata come una proposta utopistica e velleitaria, quando non addirittura come un intenzionale inganno politico; e, dall’altro lato, perché si continui ad essere ostaggio dell’ideologia gentilian-gramsciana secondo la quale esisterebbe, in sostanza, un solo modo di essere eccellenti e meritevoli, quello scolastico-universitario, senza essere in grado, al di là dei proclami, di abbracciare e riconoscere il contrario, ovvero che i modi dell’eccellenza sono e devono essere vari e analoghi, mai univoci, sia a livello secondario sia a livello terziario. Questo sì sarebbe “popolarismo” non elitario.