Il 24 aprile si è chiusa la consultazione online, aperta il 24 marzo dal ministro Profumo, sull’abolizione del valore legale del titolo di studio. A più di una settimana dal termine della campagna di dibattito pubblico, non sono ancora stati comunicati i risultati. Finora solo “exit-poll”, dai quali risulterebbe che il 73% di quelli che hanno risposto alle domande della consultazione sarebbe contrario all’abolizione del valore legale.
Poiché al pezzo di carta viene attribuito il valore di certificazione dell’impegno e del sacrificio spesi a studiare, toglierlo di mezzo sarebbe interpretato come mancato riconoscimento di quell’impegno-sacrificio. Altri temerebbero che il sistema universitario italiano possa diventare come quello americano, con atenei di serie A e di serie B, con conseguente svalutazione del loro titolo di studio. Vien da osservare: quasi che non fosse già così e anche peggio! In ogni caso, l’unico merito di questa consultazione è stato quello di riaccendere per un attimo i riflettori sul tema. Per il resto, solo l’ennesima fuga demagogica verso l’indecisionismo e un gioco al rinvio secolare da parte del ministro di turno e della politica.
Gli interventi assai qualificati, di cui IlSussidiario.net ha dato conto, hanno intrecciato due aspetti della questione: quello giuridico e quello della posta in gioco sostanziale. Sul primo punto, continua a valere il giudizio che, a suo tempo, fornì Sabino Cassese circa “la nebulosa” giuridica rappresentata dall’espressione “valore legale del titolo di studio”. Il dossier del Servizio studi del Senato lo ha arricchito con dati più particolareggiati e con indagini comparative su scala europea e statunitense. Con l’espressione “valore legale del titolo di studio” si indica “l’insieme degli effetti giuridici che la legge ricollega ad un determinato titolo scolastico o accademico, rilasciato da uno degli istituti scolastici o universitari, statali o non, autorizzati a rilasciare titoli di studio”. Il titolo di studio è, in particolare, un requisito per l’accesso alle professioni regolamentate e agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni.
Il valore legale del titolo di studio non è dunque un istituto giuridico che trovi la sua disciplina in una specifica previsione normativa, ma la risultante di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico e che hanno trovato conferma nel dettato costituzionale, art. 33, quinto comma, che prescrive un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Questa, che è la norma di base in materia, stabilisce una sorta di valore legale indiretto: il titolo di studio non è necessario per l’esercizio della professione, bensì “per l’ammissione all’esame di Stato, a sua volta necessario per l’esercizio della professione”. Fin qui, in sintesi, la conclusione del dibattito giuridico.
Ne consegue che non si tratta, rigorosamente, di abolire nulla, ma di modificare regolamenti, pratiche burocratiche, pigre consuetudini delle Amministrazioni pubbliche nella selezione dei candidati e, secondo alcuni, di modificare il dettato costituzionale. Ma la questione di sostanza, che deve guidare gli interventi legislativi ed amministrativi, è quella della corrispondenza tra ciò che sta effettivamente nello zaino delle conoscenze/abilità/ competenze del titolato e ciò che il titolo dichiara formalmente vi sia. Qui occorre prendere atto che l’intero sistema statale di valutazione, costruito sui voti, sugli esami e sui titoli finali, versa in una crisi profonda non reversibile. Detto più semplicemente: i titoli non dicono la verità sul contenuto dello zaino. Mentre nel settore privato, il mercato fa presto giustizia di tale fallacia, nel settore delle pubbliche amministrazioni e in quello delle professioni gli utenti non dispongono delle informazioni necessarie per accertare la adaequatio rei et intellectus. Si chiama “asimmetria informativa”. Toccherebbe alla certificazione espressa dal titolo di studio. Ma questa, appunto, è fasulla. O quasi.
Il meccanismo di certificazione statale – riguardi esso i voti di una classe di scuola media, i diplomi di maturità, la laurea in medicina, l’abilitazione all’insegnamento, i concorsi a dirigente – può garantire solo sull’avvenuto rispetto delle procedure e sul possesso di determinate conoscenze. Non è stato costruito per accertare abilità e competenze. Di un candidato alla dirigenza di una scuola può solo certificare che ha buone conoscenze e buona memoria, ma nulla può dire del suo portfolio di competenze-chiave professionali. Favorevoli che si possa essere al mantenimento del cosiddetto “valore legale”, in nome delle tradizioni, dell’eguaglianza sostanziale, dell’ostilità ideologica allo spirito anglo-americano, ostili che si possa essere a impelagarsi nel tentativo di cambiare leggi, regolamenti e, eventualmente la stessa Costituzione, non si potrà negare che lo Stato fallisce sul punto decisivo: quello di dire ai cittadini utenti di servizi pubblici e professionali la verità sulle competenze professionali degli addetti.
L’intero sistema dei concorsi dello Stato napoleonico-giacobino ottocentesco, concepito per un’epoca di Stato assoluto, autocertificantesi, monopolistico, è al fallimento. E il famoso zaino si trasforma in una scatola nera indecifrabile. Così, il valore legale del titolo di studio, che dovrebbe garantire l’uguaglianza sostanziale dalle Alpi al Lilibeo, si trasforma in un’iniqua copertura delle diseguaglianze reali. Esiste un’altra strada? Sì, è il passaggio dalla certificazione statale alla certificazione pubblica. Ed è quella che, permanendo o no il valore legale del titolo di studio, si sta tentando e praticando in Europa, in Gran Bretagna, negli Usa. Essa consiste nel definire gli standard in sede pubblica, nel far valutare ad Agenzie indipendenti di valutazione e di accreditamento, riconosciute dai parlamenti, il raggiungimento degli standard, nel far certificare a queste Agenzie il possesso individuale delle conoscenze, abilità, competenze previste dagli standard, si tratti di un alunno di Terza media o di un aspirante medico. Le scuole e le università forniscono le conoscenze, i periodi di praticantato sul campo consentono di verificare l’esistenza di abilità e competenze, le Agenzie certificano mediante esami, test, colloqui individuali e presa d’atto dello “storico” dei portfolii formativi e certificativi.
Sono già su questa strada l’European Qualifications Framework, la Quality Assurance Agency for Higher Education inglese, le Agenzie di accreditamento statunitensi, riconosciute – in base al Titolo 34, Capo VI, & 602 del Code of Federal Regulations – dal Dipartimento federale per l’educazione o dalla Council for Higher Education Agency (Chia). E da noi? Anche qui si è incominciato a camminare, a partire da quei settori dell’istruzione, che nell’opinione comune sono di più basso livello – quelli dell’istruzione professionale e della formazione professionale regionale, nei quali il tema della certificazione sta diventando centrale – fino al livello dell’università e della ricerca, con l’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca).
Ma arrivare al traguardo implica la fuoriuscita dalle pigre tavole dei programmi di studio del 1859 e successivi e stilare tavole delle competenze-chiave. E questa non può essere faccenda ministeriale-statale. Al contrario, occorre mettere insieme le espressioni di punta della società civile in campo formativo, produttivo, culturale, accademico, per costruire un’Authority pubblica, che elabori e aggiorni periodicamente obiettivi e standard e i profili delle competenze di base e competenze vocazionali. L’Ofsted (Office for Standards in Education) inglese svolge già questo compito per l’istruzione pre-universitaria. Le difficoltà della politica a procedere su questa strada non sono certo dovute principalmente all’insipienza, bensì ad una radicata resistenza al cambiamento da parte della società civile stessa, dell’opinione pubblica, dei mass-media, delle famiglie, dei partiti, tutti quanti accomunati dal pensiero unico dello Stato assoluto, garante di libertà, uguaglianza, fraternità.
Lo Stato-Dio si è laicizzato in Stato-amministrativo, ma il suo culto è rimasto stabile e diffuso. Così la difesa del valore legale del titolo di studio serve a velare la conservazione ideologica e la difesa di corposi interessi. Quanto alla politica, ciò che le serve è una cosa sola: il coraggio di avere coraggio.