“Prof, non ce lo fa un discorsetto, che abbiamo tanta voglia di piangere?”Mi hanno sorpresa così, tre alunne della “mia” terza, in una delle ultime mattinate di scuola.
Una richiesta magari confusa – ma ad un adulto ben riconoscibile – di dare voce e senso a quella strana inquietudine che ciascuno ha sperimentato nella propria esistenza all’approssimarsi di un esame o comunque di una prova con cui misurarsi.
La conclusione del ciclo triennale – che ai più è ancora noto con il nome di scuola media – costituisce indubbiamente una tappa significativa per questi preadolescenti fragili almeno quanto spavaldi, che si apprestano ad affrontare il primo vero esame della loro vita. Si è fatto più impegnativo, negli ultimi anni! Non per niente lo hanno ribattezzato Esame di Stato: pesano i cinque scritti, con il tradizionale tema cui fanno seguito l’elaborato di matematica, i due di lingua straniera e, a chiudere (quest’anno lunedì 18 giugno), la prova nazionale Invalsi: a disposizione 75 minuti per il fascicolo di italiano e 75 per i quesiti di matematica. Con il 19 ha inizio la seconda fase: quella del colloquio interdisciplinare.
Un esame quindi in piena regola, tappa conclusiva di un percorso ai candidati già noto, che può tuttavia costituire, specie per alcuni, una reale incognita. Se infatti i docenti hanno dovuto “superare” il momento non facile dello scrutinio per decidere l’ammissione o meno dei propri alunni, la vera selezione sarà l’esame a farla. È questo forse che presentono gli studenti ed è questo a renderli così ansiosi e irrequieti.
Ma che cosa sono chiamati a dimostrare questi quattordicenni al loro primo banco di prova? Se da una parte dovranno documentare come, nei tre anni di ciclo, abbiano incrementato il loro bagaglio di conoscenze, l’esame offrirà ai docenti l’opportunità di verificare anche l’acquisizione di una serie di competenze: quella capacità cioè di “trafficare”, a livello di contenuti e a livello di metodo, quanto dell’offerta formativa fornita dalla scuola abbiano realmente metabolizzato e quindi ora veramente possiedano.
Anche per questo l’esame chiama in causa non solo gli alunni, ma anche noi docenti che dobbiamo accettare di fare i conti con una realtà di scuola ben più complessa di quella che caratterizzava… il secolo scorso: la ricchezza e la pluralità degli strumenti, l’introduzione delle nuove tecnologie non possono essere ignorate, ma vanno spese per “connettersi” con queste nuove generazioni che navigano con disinvoltura su internet, che sanno selezionare ogni tipo di informazione, che realizzano un power point in tempi da record, che stringono “amicizie” planetarie trascorrendo buona parte del loro tempo a chattare su Facebook dalla postazione di un computer.
A noi educatori − sia come famiglie che come insegnanti − che cosa dunque compete? Incoraggiare senza però minimizzare. I ragazzi devono sentirsi accompagnati da noi adulti in questo momento di passaggio che trova, nell’esame, una sua manifestazione più esplicita. Attenzione però a non fare leva solo sul “dovere”, ma a puntare anche sullo “scopo”. Lo ha detto Benedetto XVI rivolgendosi ai cresimandi il 2 giugno a San Siro durante la sua visita a Milano in occasione del Family Day: Non siate pigri, ma ragazzi e giovani impegnati, in particolare nello studio, in vista della vita futura: è il vostro dovere quotidiano e una grande opportunità che avete per crescere e per preparare il futuro.
Fiducia e realismo quindi: due qualità che i quattordicenni faticano certo a reperire nel loro vissuto quotidiano. È forse a questo livello il contributo più significativo che noi adulti possiamo offrire: provare a guardare i nostri ragazzi in azione e lasciarci sorprendere dalla loro bellezza! È anche questo un esame molto impegnativo che noi educatori dobbiamo superare: potrà succedere così, tutto d’un tratto, che anche grazie alla tenerezza di questo sguardo, loro − i nostri figli, i nostri alunni − possano cedere al fascino della propria bellezza e forse, da quel momento, cominciare a non aver più paura.