Per loro la disoccupazione sembra non esistere. Non si tratta di laureati bensì di tecnici, appena usciti dagli istituti superiori. Tecnici dell’industria e delle costruzioni e operai del settore metalmeccanico, queste le figure professionali al momento più richieste. Già in primavera il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo aveva annunciato una riorganizzazione dei 59 Its, gli istituti tecnici superiori lanciati dal precedente ministro Gelmini i quali, purtroppo, avevano avuto una battuta d’arresto. Tra i settori che costituiranno il cuore della formazione dei nuovi istituti tecnici: sanità, moda, agribusiness e costruzioni. Questi i temi trattati ieri nel corso della “Conferenza dei Servizi” curata dal sottosegretario all’Istruzione Elena Ugolini. “Nel secondo dopoguerra” – ha detto il Sottosegretario in una intervista a IlSussidiario.net – “negli istituti tecnici professionali si sono formati gli uomini del nostro boom economico e gli imprenditori che poi hanno fatto la fortuna del Made in Italy, per esempio nel settore della meccanica. Negli ultimi vent’anni anni si è diffusa invece un’idea, assolutamente sbagliata, che considera il liceo la scuola migliore, a discapito dell’istituto tecnico e del percorso di formazione professionale. Credo che il clima di oggi sia cambiato e che ci si inizi a interrogare sulla possibilità di far diventare nuovamente le scuole luoghi formativi di un apprendimento che può passare proprio attraverso il lavoro. Ecco perché bisognerà contare su laboratori di settore, su un rapporto stretto con la realtà produttiva”. Abbiamo chiesto un parere a Giuseppe Tripoli, responsabile per l’Italia per le piccole e medie imprese (Mister Pmi) e presente alla tavola rotonda di ieri.



Davvero gli istituti tecnici devono cambiare rotta?

Certo, in Italia la filiera della formazione e dell’istruzione tecnico-professionale è stata, per diversi anni, trascurata ed è stata privilegiata l’altra linea, quelle che prediligeva la scelta di licei e università. Questo ha creato una distanza maggiore della formazione dal mondo del lavoro e dall’impresa. Riordinare la filiera dell’istruzione tecnico-professionale consente di mettere a disposizione delle aziende personale e collaboratori già formati e qualificati.



Come ovviare al disallineamento che c’è nel Paese fra filiere produttive, formazione e poli tecnologici?

Per prima cosa, occorre stabilire le esigenze delle imprese che non sono fisse ma in continua trasformazione. In questo momento il mondo imprenditoriale e produttivo italiano è fortemente sollecitato dalle dinamiche internazionali e siamo immersi nella logica della globalizzazione: non esiste più il mercato interno ed estero, siamo davanti ad un solo soggetto. Il mercato e le filiere produttive italiane si stanno riorganizzando per affrontare questa nuova sfida, sapendo esattamente che si potrà vendere dietro l’angolo o dall’altra parte del mondo. Per questo ci sono una serie di saperi tradizionali che costituiscono un patrimonio da non perdere, come le capacità artigiane o tecnico-meccaniche; ci sono pure dei nuovi saperi di carattere tecnico e professionale che occorre acquisire rispetto ad esigenze nuove.



 

Può fare un esempio?

 

Il tema dell’efficienza energetica, nei prossimi anni, caratterizzerà il futuro delle imprese italiane, qualunque sia il settore a cui si dedicano. Quindi, per primo occorre stabilire i bisogni delle aziende. Il secondo passo è che a questi bisogni, laddove si verifichi un assenza di formazione adeguata, si affianchi un offerta. Ieri abbiamo parlato soprattutto di istituti tecnici superiori poichè costituiscono l’anello mancante nella filiera della nostra produzione.

 

Vuole fare qualche esempio riferito ad alcuni distretti o zone d’Italia?

 

Ieri abbiamo tracciato una mappa con la presenza sul territorio di sedici importanti filiere produttive e abbiamo verificato le zone dove ci sono i maggiori fatturati, valori aggiunti e numero di occupati. Dunque, il tentativo che stiamo facendo è quello di permettere che gli istituti tecnici si localizzino dove c’è maggior presenza imprenditoriale, legata ad una certa filiera, tenendo conto delle esigenze del territorio ma anche quelle nazionali. Ad esempio, il settore dell’aerospazio va localizzato in aeree ricche di aziende legate ad esso, come il Piemonte, la Lombardia o la Campania. In queste zone può sorgere un istituto di eccellenza nazionale poiché il territorio è in grado di sostenerlo.

 

Ci sono dei requisiti “culturali” e specifici che devono avere le nuove figure tecniche?

 

Sicuramente la vicinanza all’azienda che si acquisisce con la formazione in aula, ma soprattutto, in azienda.

 

Come si è arrivati a questo bisogno di super tecnici a fronte di una disoccupazione giovanile abbastanza elevata? Come mai non si è capito prima?

 

E’ un orientamento culturale generale vivo da anni, per cui i licei valgono più degli istituti tecnici e si è posta minor attenzione di quella che in realtà meritassero queste forme di istruzione professionale, tanto che le aziende sono state costrette a fare formazione in azienda più di quanto accade in altri Paesi. Il dato che ci preoccupa è che il 33% delle aziende italiane fa un periodo di formazione per i nuovi assunti.

 

Come è possibile cambiare questa mentalità?

Innanzitutto occorre dare legittimazione sociale all’istruzione tecnica capendo che formarsi non significa solo educarsi sulla cultura che affonda le sue radici nelle categorie generali della scuola classica, ma istruirsi anche nel lavoro. Poi, occorre una vicinanza del mondo delle imprese a questo tipo di esigenza: gli anni scorsi le aziende si sono accollate una formazione aggiuntiva in loco. In un’epoca come questa in cui i costi per le imprese sono diventati un elemento di competitività importante, hanno acquisito la consapevolezza che è bene che l’istruzione tecnica sia potenziata per ottenere personale già formato al primo giorno di lavoro. In Germania la riforma dell’istruzione tecnica ha portato negli anni scorsi ad un pieno riconoscimento dell’istruzione tecncia e ad una crescente presenza di aiuti in quella filiera, portando soddisfazione sia per le imprese sia per i giovani in cerca di occupazione.

 

Ci sono ancora margini di miglioramento per quanto riguarda il settore dell’istruzione tecnico-professionale?

 

Il lavoro che ha impostato il Miur e a cui stiamo collaborando va nella giusta direzione: far dialogare le amministrazioni centrali e quelle che si occupano della formazione, dello sviluppo e del lavoro. E soprattutto inserire in questo circuito la voce del mondo delle imprese.

 

Laurearsi, quindi, non conviene più?

 

Studiare conviene sempre. Sia che si tratti della formazione che comprende la laurea o i dottorati sia quella che si conclude con gli studi superiori. Per ora, a noi mancano periti specializzati ma, d’altra parte, c’è carenza di persone che abbiano conseguito una laurea magistrale o nelle materie tecnico scientifiche; si sta quindi riflettendo su incentivi che permettano alle imprese di occupare persone che hanno seguito questi percorsi.

 

(Federica Ghizzardi)