I titoli dei temi della maturità-esame di Stato costituiscono un’interessante cartina di tornasole degli sforzi che la “scuola ministeriale” fa per rappresentare culturalmente la “scuola reale”. La lettura dei titoli, formulati dall’apparato amministrativo centrale, dice molto sulla visione che l’apparato di anno in anno costruisce della condizione della scuola, delle sfide culturali che essa deve affrontare, della condizione delle giovani generazioni che incessantemente passano sotto le forche caudine della maturità. Tuttavia, l’esperienza degli ultimi decenni dimostra che la produzione culturale, rappresentata dai temi della maturità, si assesta mediamente su bonari e buonisti luoghi comuni, ai quali viene a mancare la strumentazione intellettuale delle discipline di riferimento, vuoi perché il programma previsto nelle sue scansioni logiche e soprattutto cronologiche non è mai arrivato a toccare il tema proposto vuoi perché la spiegazione dei punti cruciali del programma non è stata in grado di connetterli esistenzialmente con la vita dei singoli, immersi nella storia presente.
Prendiamo “l’analisi del testo”, che ha come oggetto un articolo di Eugenio Montale dal titolo: “Ammazzare il tempo”, pubblicato sul Corriere della Sera del 7 novembre 1961. Il centro delle sue considerazioni filosofiche è l’affermazione che “il tempo è vuoto” e che, pertanto, gli uomini si danno un gran da fare per impedirsi di percepire quel vuoto: “…e poiché pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto, ecco la necessità sociale di fare qualcosa”. La storia umana e l’organizzazione delle società sono solo un tentativo di “anestetizzare la vaga impressione che quel vuoto si ripresenti in noi”. Sulla lunghezza d’onda del moderno nichilismo filosofico e letterario europeo, da Emil Cioran a Paul Celan a Ernst Hemingway – celebre il suo “Padre nostro”: “Nulla nostro che sei nulla, sia santificato il tuo nulla…” – il laico Montale, in piena rivoluzione industriale italiana, propone qui una visione cruda e senza speranza della condizione umana, prigioniera del proprio vuoto metafisico, che all’epoca in cui venne scritta andava controcorrente rispetto al progressismo ottimistico della nuova Belle époque degli anni 60. Interpretare questo testo si può: si suppone, tuttavia che sia stata svolta tutta la parte della storia politica, culturale, filosofica e letteraria del primo Novecento.
La conoscenza empirica della condizione della scuola italiana, all’ultimo anno delle superiori, non consente una supposizione del genere, che si può riferire più ad un’eccezione che ad una regola. L’esito più probabile dell’assegnazione di questo tema è il suo by-passaggio per lidi più riposanti, magari dedicati alla citazione di Paul Nizan, tratta da Aden Arabia del 1931): “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Una citazione d’obbligo negli anni 60 per una generazione che si avviava verso il ’68, perché esprimeva il disagio di una generazione di fronte di fronte alla riduzione consumistica dell’esistenza, e che oggi sarà utilizzata nei temi per parlare dei “giovani e la crisi” secondo un taglio completamente diverso e perciò storicamente decontestualizzato.
Osservazioni analoghe si possono fare per il “saggio breve” o “l’articolo di giornale” che il maturando dell’ambito artistico-letterario volesse dedicare al tema del labirinto, filtrato attraverso i testi di Ludovico Ariosto, Jorge Luis Borges, Italo Calvino e Umberto Eco. Se in Montale il centro è il nichilismo ontologico – la realtà è il vuoto – qui invece è il nichilismo gnoseologico – la realtà esiste, ma non si riesce ad afferrarla, perduti come siamo nel labirinto delle nostre rappresentazioni -.
Dovendosi escludere un’intenzione di prevaricazione filosofica e di orientamento nichilista dei cervelli dell’apparato ministeriale, si può solo concludere, come sopra, che questi titoli sono stati proposti, senza avere la più vaga idea che nella scuola italiana degli ultimi trent’anni queste problematiche o non vengono raggiunte o sono trattate in maniera del tutto inadeguata, mancando ormai la preparazione degli insegnanti in campo storico e, soprattutto, l’interdisciplinarietà necessaria per alimentare una conoscenza in grado di far accedere a questi temi in termini non banali. Quanto ai temi che sono chiamati di ambito storico-politico o tecnico-scientifico, essi propongono in realtà oggetti di filosofia politica: “Bene individuale e bene comune” e “Le responsabilità della scienza e della tecnologia”.
Poco male si dirà: l’apparato ministeriale propone contenuti alti, e poi il ragazzo puo’ sempre scegliere quelli più banali o accessibili. Sì, i ragazzi se la caveranno in qualche modo. Ma il sospetto che affiora è che questo apparato amministrativo e politico (?) sia convinto che la scuola che esso ha in testa coincida con la scuola reale. Si potrebbe supporre un’intenzione pedagogica, rivolta agli insegnanti: poniamo in alto l’asticella, così che siano spinti a saltare più in alto. Intenzione apprezzabile, qualora si decidesse di porre finalmente mano al curriculum, agli ordinamenti, all’organizzazione non tayloristica e alienante della didattica, al profilo professionale degli insegnanti. Il che non pare. Da questi temi emerge un dato certo: la schizofrenia culturale e la doppiezza politica dei decisori. Tanto più certo, quanto più è involontario.