La traccia della tipologia B di ambito Artistico-Letterario aveva come tema Il Labirinto. Una traccia intricata, e non solo per l’argomento, con diversi spunti per l’approfondimento. Gli artisti citati tra i documenti sono stati P. PICASSO, Minotauromachia, 1935, J. POLLOCK, Pasiphaë, 1943, M.C. ESCHER, Relatività, 1953 per quanto riguarda le arti figurative, Ludovico ARIOSTO, Orlando furioso, ed. 1532, Canto dodicesimo, Ottave 7-12, Jorge Luis BORGES, L’immortale, in “L’Aleph”, Feltrinelli, Milano 1959 (ed. orig. “El Aleph”, 1949), Italo CALVINO, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, Umberto ECO, Il nome della rosa, Prima ed. riveduta e corretta, Bompiani, Milano 2012 (Prima ed. 1980) per la prosa.
1.Il Labirinto – «Non so bene spiegare cosa avvenne, ma come abbandonammo il torrione l’ordine delle stanze si fece più confuso» (Umberto Eco, Il nome della Rosa). L’abbandono di un luogo conosciuto segna, per Guglielmo e il suo allievo, l’ingresso nel labirinto, uno spazio in cui l’ordine si confonde, perde logicità, diventa quindi umanamente illeggibile.
Il labirinto nella letteratura e nell’arte è spesso simbolo di perdita di sé, oltre che della strada da percorrere. Così Calvino ne Le città invisibili immagina Pentesilea, città introvabile, che si ha sempre la sensazione di aver appena oltrepassato, o di dover ancora raggiungere. La sua peculiarità però è quella di sembrare un eterno limbo, un posto di stasi infinita e irreale, dove anche le persone che si incontrano non conoscono se non il piccolo frammento che li coinvolge (mi riferisco al passo: «-Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine,- ti rispondono alcuni, e altri: -Noi torniamo qui a dormire»).
Allo stesso modo Escher nella Relatività (1953) immagina la realtà come un groviglio di scale in cui ogni punto cardinale è rovesciato, e dove quindi è incomprensibile, se non ridicolo, il tentativo di conoscerla. Attraverso l’opera di Escher emerge un dato ulteriore: il fatto che la realtà sia assimilata all’immagine del labirinto significa che essa è vista come qualcosa di non decifrabile fino in fondo, inconoscibile per l’uomo che, pure, vi è immerso.
2. L’origine di questa percezione – «Ragioniamo» dice sempre Guglielmo all’inizio del suo discorso (Il nome della rosa), e proprio il suo ragionamento porta a conclusioni che risultano erronee. La realtà ha incominciato ad essere un labirinto proprio quando, sostiene il Beato Giovanni Paolo II nell’introduzione a Memoria e identità, l’uomo ha iniziato ad anteporre all’osservazione la propria idea riguardo alla realtà stessa, storicamente con Cartesio.
Così i paladini dell’Orlando furioso, persi nel castello di Atlante, corrono il rischio di perdere la via per sempre, di dimenticare lo scopo del loro agire perché caduti nell’inganno del castello. Essi, anziché accorrere al richiamo del re – rispondendo a quella che è la loro la missione, ciò che permetterebbe loro di conoscere più profondamente se stessi e il mondo –, «stanno, / che non si san partir di quella gabbia; / e vi son molti, a questo inganno presi, / stati le settimane intiere e i mesi» (XII, 12).
3. Conclusione – Davanti all’opzione di un mondo-labirinto che porta alla perdita di sé l’unica possibilità è ripartire dalle istanze precartesiane, da quello che l’uomo è e che desidera, da quello che biblicamente è definito cuore, ossia l’insieme di esigenze che l’uomo ha. Solo così si può non escludersi dal labirinto del mondo, ma percorrerlo neutralizzando la sua forza straniante, guardando tutta la realtà senza mai perdere l’orientamento.
(Maria Chiara Gomaraschi)