«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita» (Paul Nizan, Aden Arabia, 1931).
Il candidato rifletta sulla dichiarazione di Nizan e discuta problemi, sfide e sogni delle nuove generazioni.
La traccia ufficiale del tema di Tipologia D della prima prova della Maturità 2012 è destinata a far discutere. IlSussidiario.net affronta e svolge la prova con MONICA MONDO. La stesura dello scritto parte proprio dalla frase di Paul Nizan (che ispirò un durissimo film-denuncia di Fernando Di Leo negli anni Settanta): si può essere infelici a vent’anni? E si potrà mai esserlo, dunque, nella vita dei giorni nostri?
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Se la vita non è bella a vent’anni, non lo sarà mai, e non lo è mai stata. Se a vent’anni la vita è una somma di speranze vane, come diceva una canzone che cantava mia nonna, non si vede perché trascinarla fino a settanta, ottanta per i più robusti, come dice la Bibbia. Se la vita non ha un significato, quindi una promessa di felicità, è inutile anche questa prova di esame, inutile cercare il successo scolastico, nel lavoro, aspirare a quell’eccellenza che ci viene proposta come la chiave del nostro futuro e di quello del paese.
Premetto, non amo la retorica della giovinezza come l’età bella e spensierata e felice, da mordere voracemente, come voleva D’Annunzio. E’ il tempo in cui la realtà ci viene incontro, con le sue infinite possibilità e il suo carico drammatico di domande senza risposta, di contraddizioni, di dolori e rabbia. Solo una mente e un carattere superficiali e sconsiderati possono accontentarsi di sopravvivere tra compiti a casa, ragazza e serate con gli amici, neppure la trasgressione paga abbastanza per acquietare i rovelli che bruciano, e più si cresce, più bruciano. Basta aprire i giornali, accorgersi di chi paga nel mondo il nostro tranquillo tran tran borghese, il nostro naturale accomodarsi nella culla domestica, in attesa, ci pare, che tocchi a noi, che arrivi l’attimo del balzo, dello slancio, l’occasione per decidere il domani.
Senza andare alla ferocia delle persecuzioni dei cristiani in Nigeria, alla schiavitù di tante coetanee in paesi lontani, nelle nostre città, nei nostri quartieri ci sono ventenni costretti a lasciare gli studi, a sopportare con lavori pesanti e saltuari l’onere di mantenere la famiglia. La crisi non è un gioco per tecnici esperti di finanza, uno spot perché regga il governo, un gioco per alzare le copie della stampa, anche se sospetto che la sua portata sia stata volutamente ingigantita, perché qualcuno ne tragga vantaggio. Questa crisi fiacca, schiaccia e uccide. Se hai vent’anni, blocca i desideri e la volontà di sperare. Quand’eri bambino, sembrava che i grandi, i genitori, i maestri, benché sempre più rari, avrebbero preso su di sé le fatiche e i problemi, e li avrebbero certamente risolti.
Sembrava che le cure e gli affanni fossero lontani, relegati in un tempo sospeso, che avremmo potuto rimandare per sempre. Invece. La malattia. La morte. La noia o al contrario la rincorsa sfrenata a consumare le giornate, gli affetti. La competizione ad armi impari, perché comunque c’è chi parte in vantaggio, e chi arranca nelle retrovie, e si rassegna, deluso.
Ai nostri padri è andata peggio. Ai ventenni afghani o irakeni va peggio. Agli studenti che hanno affollato pacificamente piazza Taharir al Cairo va peggio. Lo stesso Paul Nizan , poco più che ventenne, vedeva crescere il mostro nazista, e sarebbe morto combattendolo. Non sono le condizioni a determinare la vita: possono renderla più dura, più difficile, ma proprio per questo più appassionata e piena. Possono scatenare tutta la voglia di cambiare, di costruire, di cercare comunque la positività che esiste, se sappiamo ben guardare. Ungaretti a vent’anni, in trincea, scopriva dei fratelli, imparava ad amare.
La giovinezza non è l’età del divertimento inteso letteralmente come distrazione, come sventatezza, svago. Sono termini che contengono l‘idea di una fuga, di uno scarto timoroso dalla realtà. E’ invece l’età in cui le energie sono al massimo, fisiche e mentali; l’età in cui ci è chiesta una responsabilità, per noi stessi e per il mondo, qui ed ora. Ci vuole un significato, per vivere e non adagiarsi a vivere. Trovarlo è una fortuna o una grazia, ma anche il frutto di una posizione umana spalancata e ardente. E’ lo spirito di chi cerca, dell’errante, di chi domanda. E sa spiare nel vibrare di un orizzonte o nello sguardo di un compagno la strada segnata per camminare ancora.