Di fronte alla evidente decadenza culturale e sociale, di fronte alla crescente incapacità della scuola di formare nuove generazioni, il legislatore reagisce tentando di assegnare a ciascuno un posto preciso nella macchina scolastica, quasi che ci trovassimo di fronte ad un problema organizzativo e non invece culturale e di popolo. È un po’ come se di fronte ad un viaggiatore stanco e demotivato si cercasse di invogliarlo a riprendere il cammino insegnandogli a calcolare bene le distanze, a fare precisi programmi di viaggio, a dissertare con eleganza sulla molteplicità di mete disponibili, trascurando invece le questioni fondamentali: esiste qualcosa per cui vale la pena di rimettersi in marcia, è possibile incontrare qualcuno che avendolo sperimentato ce ne testimoni l’esistenza?
Ne esce un’inquietante visione antropologica, dove il singolo sembra che debba esistere in funzione del buon funzionamento dell’organizzazione complessiva.
Ecco allora che anche la scuola dell’infanzia è chiamata a prendere posto nella filiera dell’istruzione, che quasi assume toni da catena di montaggio del cittadino. Surrettiziamente si inserisce la scuola dell’infanzia all’interno dell’obbligo scolastico; manca la fiducia nella capacità di giudizio del popolo e della famiglia e perciò lo Stato tende a diventare organizzatore della totalità degli eventi educativi.
Non a caso si parla di un “processo formativo”, cioè un protocollo che serve a dar forma al buon cittadino ed alla persona soddisfatta, che coincidono nella visione moderna e contemporanea dello Stato etico. La metafora dell’educazione, come coltivazione di un seme dotato di forza e identità proprie, è sostituita con quella del processo industriale.
“L’itinerario scolastico dai tre ai quattordici anni, che si organizza oggi nella forma dell’istituto comprensivo, richiede di progettare un curricolo verticale attento alla continuità del percorso educativo e al raccordo con la scuola secondaria di secondo grado” (Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, p. 6).
L’enfasi sulla continuità verticale suggerisce una immagine di apprendimento e crescita a linea retta che non mi sembra corrispondente a ciò che accade in realtà. Meglio immaginare piuttosto la crescita e l’apprendimento come una linea circolare non perfetta, che procede per ripetizioni ed allargamenti, con anche con veri e propri “salti quantici” corrispondenti o a tappe evolutive della persona od anche a passaggi sociali e rituali (ad. esempio il passaggio fra la scuola d’infanzia e quella elementare).
L’accento rinnovato sulla “continuità verticale” si trasforma quasi inevitabilmente in una richiesta degli ordini scolastici più alti a quelli che li precedono di fornire soggetti pronti all’ingresso nella nuova organizzazione.
I bambini accetteranno con gusto e competenza le richieste del nuovo ordine scolastico, non tanto se sono stati allenati nello specifico, quanto se hanno imparato a vivere la scuola e gli adulti che la popolano come un luogo interessante e di bene per loro. Tutto questo mi spinge a chiedere di riflettere sulla specificità della scuola d’infanzia, piuttosto che sulla “continuità verticale”.
L’impostazione pedagogica non esplicitamente dichiarata, ma presente nel senso complessivo del documento, discende da una idea tutta moderna e soprattutto contemporanea che si possa formare la persona tralasciando il contenuto di sapere che viene trasmesso alle generazioni successive. Come dire: curiamo bene i circuiti ed i programmi dell’elaboratore umano, perché con questi l’individuo sarà poi capace di processare correttamente ogni tipo di informazione e potrà prendere il suo posto nella società.
Ciò cui possiamo aspirare di vero sembra essere solo la logica con cui affrontiamo i problemi. Che cosa siano il mondo e questa nostra vita, sembra non essere oggetto di sapere realmente trasmissibile, diventa oggetto di scienza solo in quanto calcolo dell’opinione della maggioranza e pratica democratica espressa come tolleranza delle minoranze. Il piano ontologico, che rimane estraneo alla vita pubblica, scientifica e sociale, è ridotto ad una questione di scelte personali.
Coerentemente con quanto detto sopra, il quadro complessivo che esce dal documento sottovaluta fortemente il ruolo necessario dell’adulto come “testimone” di una ipotesi di vita e sulla vita (maestro) per esaltarlo invece come formatore/allenatore di competenze-chiave. Lo Stato necessita infatti di formatori e non di maestri.
Anche il paragrafo dedicato alla figura dell’insegnante nella scuola dell’infanzia nelle Indicazioni nazionali (pag. 10) insiste sul ruolo di “regista” accompagnatore del docente, tralasciando gli aspetti legati all’essere di esempio, al modellamento, alla trasmissione di sapere. L’essere d’esempio non è una pratica moralistica, ma una risposta al bisogno del bambino di vedere in azione il modello proposto dall’adulto per valutarne l’efficacia.
L’affermazione “Il possesso di un pensiero razionale sviluppato gli consente di affrontare problemi e situazioni sulla base di elementi certi e di avere consapevolezza dei limiti e delle affermazioni che riguardano questioni complesse che non si prestano a spiegazioni univoche” (Indicazioni nazionali, p. 5) è condivisibile solo in parte e solo relativamente all’elaborazione di modelli scientifici.
Nel campo delle certezze morali ed esistenziali, invece, pur riconoscendo dignità alle posizioni diverse, occorre offrire al bambino un pensiero che trovando corrispondenza nei comportamenti del maestro, si misuri con la dimensione dell’agire. Ad esempio, il maestro affrontando questioni complesse, come “il perdono e la vendetta”, farà riferimento ad una idealità certa, univoca (il perdono è sempre un bene, la vendetta sempre un male) e la tradurrà in un comportamento il più possibile coerente, cioè univoco. Si tratta di offrire al bambino un punto di partenza saldo per il suo cammino, che nel tempo provvederà a fare suo, a correggere e soprattutto ad approfondire (adolescenza). Le certezze morali ed esistenziali permettono alla persona di muoversi nella realtà, affrontando le difficoltà e cogliendo le opportunità; il dubbio sistematico per contro paralizza.
Le singole affermazioni delle Indicazioni, le frasi prese in modo a sé stante, non sono in generale così terribili − c’è ad esempio un certo riconoscimento della identità di genere (maschi e femmine) e della famiglia come madre e padre; c’è riconoscimento del protagonismo dei bambini/ragazzi nel processo formativo. Rimane però vero quanto sopra detto sul senso complessivo del documento, che rischia nel tempo di snaturare la scuola dell’infanzia e di farci smarrire il senso di ciò che l’infanzia rappresenta nella vita della persona. Un periodo della vita in ogni caso che vale in sé e non come grado preparatorio di livelli futuri.
La materia è importante e prima di essere sancita a colpi di legge meriterebbe un dibattito diffuso nelle scuole. Non può esserci fretta in questo tipo di lavoro. Le necessità in campi più pratici ed operativi certo non mancano al governo attualmente in carica. Nel frattempo le vecchie indicazioni possono continuare ad essere prese come punto di riferimento.
Rimane comunque un dato di fatto da considerare: la presenza di scuole d’infanzia paritarie e comunali, che non appartengono al sistema degli istituti comprensivi e di bambini che entrano nel sistema scolastico a partire dalla scuola primaria.