Caro direttore,
non essendo prevalentemente latinista (o non essendolo più, in realtà) mi sono astenuta fino ad ora dall’intervenire nel dibattito sulla traduzione, che sento però totalmente mio: il primo amore non si scorda mai. Così, una osservazione apparentemente marginale di Busnelli, nata dall’aver sentito Andras Schiff suonare a memoria, mi sollecita a intervenire. Scrive Busnelli: “come si studia per imparare a comprendere e disegnare progetti per costruire strade, ponti e palazzi, così forse, all’inverso, si ascolta un capolavoro della musica classica, si sono studiati e si studiano i testi dei grandi autori latini e greci come se fossero dei promemoria, lasciati perché ci ricordassimo la stoffa di cui sono fatti gli uomini grandi”.
La somiglianza fra una partitura musicale, un progetto per un ponte, un testo mi ha particolarmente colpito: in tutti i casi c’è una forma che sostiene le singole note, i mattoni, le parole. La natura non lineare ma strutturale della lingua corrisponde alla natura non lineare della frase musicale o di un ponte, e questo nonostante l’apparenza dello svolgersi lineare degli eventi nel tempo e nello spazio: è sempre richiesta una chiave di volta, l’apice del fraseggio, il rema. Chi suona a memoria lo può fare perché ha in mente l’intera organizzazione del pezzo, e non la successione delle singole note e battute.
Si può imparare la tessitura? L’angolo visuale proposto a mio parere ha a che fare proprio con questo: “Come si insegna la traduzione? – scrive Busnelli – È inutile: non la si insegna. Si insegnano le grammatiche del latino e del greco, si insegna un certo rapporto con la lingua, ma la traduzione è qualcosa che va oltre, che rasenta l’afflato artistico”. Ogni testo infatti è una tessitura unica, di cui esiste un solo esemplare. Quello che lo rende affascinante è quella unicità per cui a un certo punto scatta qualcosa in me che leggo: sento la pertinenza reciproca di tutte le parti, l’armonia strutturale (anche dissonante) che le regge, e per i testi di valore sento anche che quella certa cosa non poteva che essere detta così. Quella che chiamiamo “grammatica” (le declinazioni, le coniugazioni, le eccezioni, la struttura di frase…) che cosa c’entra con questo? Poco. Sono solo le regole del gioco di quella lingua, che escludono certe possibilità e ne ammettono altre: il gerundivo è latino, in certo senso è intraducibile (tanto che noi ancora oggi diciamo “l’agenda” senza nemmeno tradurre, in realtà).
Anzi, proprio la non sovrapponibilità delle lingue è il bello della traduzione, e già di per sé è un valore aggiunto. I bilingui notoriamente hanno una percezione più completa del sistema significativo linguistico, perché posseggono più sistemi in contemporanea e un apparato categoriale piuttosto raffinato che non coincide con la somma dei due sistemi. E tutti gli studenti liceali sono (meglio: dovrebbero essere) bilingui o trilingui, e questo ancor prima che fosse obbligatorio conoscere almeno una lingua europea, e per questo sono dotati di un apparato cognitivo complesso.
Se quello che conta nel tradurre è la tessitura, è possibile descriverla? Essa è costituita da aspetti sintattici, testuali e semantici, in cui la morfologia ha un ruolo in fondo non primario. Ma proprio la tessitura nella “grammatica” tradizionale non viene descritta. Non sono assunti nel modello interpretativo del latino (né dell’italiano) i sistemi di concordanza, reggenza e inclusione di un gruppo sintattico nell’altro (per esempio il genitivo come “complemento del nome”), per cui noi riconosciamo anche a orecchio che la frase sta in piedi e il senso si costruisce entro un sistema.
Enrico Tanca nell’articolo del 20 marzo scorso riporta le risposte di Giovanni Pascoli al ministro di allora, fra cui: “Sono pubblicate […] grammatiche latine ove i fenomeni fonetici e morfologici sono sistematicamente insegnati e illustrati col lume degli odierni studi glottologici; […] possiamo dichiarare che il metodo che vi regna con le sue minuzie […] e continui richiami alla meditazione e al raziocinio, non affretta davvero l’apprendimento della lingua”. E anche, dalla relazione della Commissione Reale per l’ordinamento degli studi secondari in Italia del 1909: “L’altro errore, pure frequente, ma meno generale, è di estendere oltre la conoscenza e i bisogni propri alla scuola secondaria l’erudizione filologica e l’analisi grammaticale, morfologica e sintattica, della parola, della frase, del periodo, in guisa che la parola per sé diventi l’obiettivo principale dell’istruzione linguistica”.
È per questo che gli estimatori del metodo Ørberg tagliano corto con tutto questo apparato e tornano direttamente, senza mediazioni, al principio che la lingua anche quando è “morta” resta un sistema di comunicazione, e che come tale va trattata: l’importante è capire, se non proprio esprimersi correntemente, cioè padroneggiare le strutture testuali e comunicative tipiche di quella lingua.
L’errore è quando si danno come oggetto i meccanismi traspositivi, a cominciare dalla “analisi logica”: come si traduce in latino il complemento di causa? Quali complementi in latino si trovano in ablativo semplice? E via così: come si traduce in italiano il gerundivo latino, ecc…?” Errore! Semmai: quali strutture significative ha l’italiano/ il latino per rendere questo senso dell’altra lingua? Ogni lingua infatti codifica diversamente in strutture morfosintattiche aspetti semantici (per esempio la modalità) ed esperienze (anche corporee: per esempio il senso dello spazio e del tempo).
Per fare ciò bisogna guardare a come ogni lingua si organizza, agli aspetti tipologici per esempio: già il solo ordine dei costituenti sarebbe importante oggetto di studio. Ma ci ricordiamo i prof. che come prima cosa ci facevano mettere la frase latina nell’ordine italiano?!, impedendoci così per sempre di capire un testo. E la gerarchia del periodo? una vera caratteristica del latino classico, e noi costretti a fare l’analisi delle subordinate di primo, secondo, terzo grado, senza più sentire la potenza logica dell’intreccio coerente dei pensieri che ne promana.
Non esistono solo i due estremi: lo strumentario metalinguistico astratto e il metodo natura. Si può puntare al riconoscimento della struttura di frase (quella che fa capo al modello dei gruppi sintattici), delle reggenze sintattiche derivanti dal lessico (del tipo: cupidus amandi o facile dictu) e di tutto quanto nel testo può essere previsto come costruzione sistematica (appunto la posizione dei genitivi, le costruzioni simmetriche care alla frase latina: non solum sed etiam, ecc.…). Anche la verbo-dipendenza, o grammatica valenziale, ha un forte potere di comprensione della struttura di frase.
La mia esperienza (25 anni di cattedra di italiano e latino) è che qualcosa si sblocca nello studente quando smette di vedere il testo come una successione di parole di cui gli sfugge l’organizzazione, e comincia a vedere i soliti due blocchi e mezzo (qualcuno fa qualcosa in certe circostanze) e gli accorpamenti significativi. Allora dietro le parole appare anche un volto, quello di chi le ha pensate e scritte, che lo accoglie nel suo mondo.