Lo stato confusionale sulle “dimensioni ottimali” delle istituzioni scolastiche ha radici più lontane dell’ormai famoso DPR 233 del 1998. La questione fu posta nei passati anni 60 per la costruzione dei “centri scolastici onnicomprensivi” di scuole secondarie superiori di ordini diversi, come licei ed istituti tecnici. Essi si concentravano in una sola struttura, articolata in diversi plessi contigui, con alcuni servizi in comune (palestre, auditorium, biblioteca). Qualcuno iniziò allora ad interrogarsi non tanto sulla loro utilità, abbastanza evidente (per ragione di costi), quanto sull’opportunità di concentrare migliaia di studenti col rischio di una “incerta sicurezza”.
La considerazione era basata su varie esperienze straniere, particolarmente dei Paesi nordeuropei, giudicati, come sempre, “più avanti” di noi (nel bene e nel male…). Allora, però, non era in questione la dirigenza delle scuole situate nei grandi centri scolastici: ognuna aveva il suo preside, che poteva essere molto “vicino” alla vita scolastica dei “suoi” docenti e studenti. Roba d’altri tempi, quando una direzione didattica per esistere doveva avere almeno 50 insegnanti ed una scuola secondaria almeno 12 classi. La scelta di innalzare direttori didattici e presidi al rango dirigenziale, maturata tra il 1985 e il 1995 e sancita dalla legge 59/1997, diede inizio ad un diverso modo di intendere il rapporto tra didattica e direzione delle scuole.
Il capo d’istituto non necessariamente deve “trasformarsi” in manager, con funzioni prevalentemente amministrative; ma, obiettivamente, le cose si sono un po’ complicate con l’innalzamento, dettato dal DPR 233/1998, dei parametri numerici per riconoscere l’autonomia ad un’istituzione scolastica: minimo 500, massimo 900 alunni. Ma… c’era un “ma”: le scuole situate in un territorio montano o in piccole isole, o “contraddistinte da specificità etniche o linguistiche”, e “gli istituti comprensivi di scuola materna, elementare e media”, o quelli “di istruzione secondaria superiore che comprendono corsi o sezioni di diverso ordine o tipo” potevano continuare ad esistere anche con un minimo di 300 alunni. L’Italia ha una conformazione territoriale particolare (piena di colline e montagne), quindi le deroghe al parametro 500-900 non potevano che essere moltissime.
Qui s’insinua il primo grande errore della politica scolastica (o, se non errore, la sua poca lungimiranza): il non considerare in anticipo un criterio correttivo, per evitare fin dall’origine lo smisurato ricorso alle deroghe concesse dalla norma. Se le eccezioni confermano la regola, in materia di dimensionamento scolastico sono state pari, se non maggiori, delle situazioni “regolari”; ed oggi, quasi 15 anni dopo il DPR 233, sopravvivono scuole molto sottodimensionate (con 250 alunni) e… i nodi vengono al pettine: il secondo errore della politica, non far compiere i dovuti controlli.
Quando si deve risparmiare sulla spesa pubblica per l’istruzione, bisogna essere lungimiranti, se non si vuole depauperare il sistema fino al punto di farlo implodere. Belle parole, queste, penserà il lettore. Ma, come? – si chiederà. Anche i politici di turno se lo son chiesto. Però se lo sono chiesto “sotto pressione” (l’estate del 2011), dando non una, ma tre risposte col fiato corto, e per di più tra loro in contraddizione.
Prima risposta. La legge 111/2011, art. 19, ha stabilito la costituzione di istituti comprensivi delle scuole primarie e secondarie di primo grado, chiudendo le vecchie direzioni didattiche e scuole medie autonome. Il provvedimento fa leva anche su un’esigenza della didattica da molto tempo prospettata (fin dalla CM 1/1988, riguardante gli alunni con disabilità; e poi, per tutti gli alunni, con il DM del 16/11/1992, applicativo della L. 146/1990 di riforma della scuola elementare). Per comprensibili ragioni di risparmio della spesa pubblica, si è stabilito di fissare in 1000 il numero minimo di alunni dei “nuovi comprensivi” (perché già da prima si poteva istituirli, col parametro 500-900, ma non si doveva). Subito si è levata una doppia obiezione: 1) l’esigenza didattica invocata come radice del provvedimento era depotenziata dalla creazione di una struttura con minimo 1000 alunni, numero che complica molto la sua gestione; 2) accanto al nuovo comprensivo di almeno 1000 alunni poteva continuare ad esistere il vecchio con almeno 500 e massimo 900: evidente anomalia.
Seconda risposta. A governo tecnico appena varato, la Nota prot. 10309 del 13 dicembre 2011 ha chiarito che il numero 1000 si doveva intendere come “media regionale di riferimento”. Meglio di prima, ma non abbastanza. Restava la contraddizione tra vecchi e nuovi comprensivi. Per risolvere la questione sarebbe occorsa una revisione di tutta la rete scolastica, armonizzando la vecchia e la nuova. Sarebbero riusciti i decisori politici (le Regioni) a fare ciò entro dicembre 2011 per rendere operativi i nuovi piani per il 2012/2013? No, di certo. Ecco allora il rinvio, prima al gennaio 2012, poi all’anno 2013/2014, salvo che per le situazioni più fuori norma (qualche scuola in certe regioni, la gran parte in altre). Si è preso atto, insomma, che era un po’ sbagliato giustapporre ad una situazione vecchia e fuori norma una nuova situazione riferita a parametri del tutto differenti.
Terza risposta. “Per risolvere il rebus forse bisogna rifare i parametri”, avrà pensato qualcuno, giustamente. E l’art. 4, comma 69, della legge 183/2011 (Legge di stabilità) li corregge: il minimo sale a 600 (e possibili deroghe col minimo a 400). Bene, in teoria. Ma in pratica si complica ancora di più tutto, se il provvedimento non viene raccordato adeguatamente con la legge 111 dei nuovi comprensivi di almeno 1000 alunni.
Anche perché, se il minimo di alunni è di 600, significa che con 1200 o poco più un’istituzione scolastica si può “sdoppiare”. Il che diminuisce il senso di costituire dei nuovi comprensivi di 1500 alunni e più, solo in omaggio al fatto che si tratta di direzioni didattiche o scuole medie, non “verticali”. Un’obiezione di fondo: la legge 111 maschera con le esigenze didattiche (la continuità educativa) le pressanti esigenze di risparmio. Combinando un “pasticciaccio brutto”, se si pensa alle contraddizioni che innesca nel tentativo di razionalizzare davvero la rete scolastica (e ce n’è bisogno, sicuramente). Chi l’ha detto che la “continuità educativa” non si realizzi bene tra la scuola primaria di una direzione didattica di 800 alunni e la vicina scuola media di 700 alunni, senza bisogno di creare un “mostro verticale”? La questione posta è didattica e politica al contempo.
Come uscirne? Se ne può uscire solo a condizione che la politica conduca alla formazione di leggi non legate allo stretto giro di anni delle legislature (e delle varie clientele), ma proiettate a durare un ragionevole lasso di tempo. Innanzitutto, la scuola non può essere trattata alla stregua di un ufficio amministrativo, la cui riorganizzazione anche radicale può durare qualche mese e basta. Per la scuola (parlo per esperienza) un lasso di tempo ragionevole si misura almeno in un paio di decenni, perché ogni atto di riforma ci mette almeno cinque anni per essere metabolizzato ed altri cinque per dare i primi frutti. E poi, se la scuola ha la sua autonomia (citata perfino dalla Costituzione), perché non lasciarla vivere in pace, quando ha già le dimensioni “ottimali” di 600/1200 alunni per potersi reggere? Forse perché in troppi non rispettano le regole?
E allora, ci devono andare di mezzo tutti, anche chi le regole le ha rispettate? Quale lungimiranza è questa? Quale equità? Infine: va anche bene, forse, accettare che le scuole sottodimensionate (sotto i 600 alunni, o 400 “in deroga”) siano date in reggenza ad un dirigente titolare in una scuola già “dimensionata” e non siano assegnate, per risparmiare, ad un “dirigente del terzo millennio dallo stipendio di giada”… ma non esageriamo, per favore! La reggenza di più istituzioni scolastiche da parte di un solo dirigente è un risparmio di soldi, ma anche un grave sperpero di qualità. Se, poi, si aggiunge (come detta l’art. 4, comma 70, della citata L. 183/2011) che a quelle stesse istituzioni scolastiche con meno di 600 alunni non si può nemmeno assegnare “in via esclusiva un posto di direttore dei servizi generali ed amministrativi (Dsga)”, l’esagerazione è davvero totale.
Perché non farla finita con le decisioni centralistiche, per lanciare finalmente le scuole del “sistema scolastico nazionale” (art. 1 della L. 62/2000: scuole pubbliche gestite dallo Stato o da privati) in quella sana competizione che le farebbe solo crescere, non morire lentamente? Chi ha paura della vera autonomia delle scuole, fatta di certezze, non di un continuo rilancio di dubbi? Occorre certezza di chi le governa (riforma degli organi di gestione); certezza del budget assegnato “a priori” in rapporto agli alunni frequentanti (per quota capitaria); certezza di un controllo consuntivo serio (anche se non inquisitorio); certezza di un accompagnamento amichevole ma positivamente critico (monitoraggio) da parte di un “superiore” non gerarchico (un istituto “terzo” di valutazione del sistema). Qualcuno ci pensi. Presto, per partire; con ragionevole calma, per realizzare. Grazie.