La cultura della valutazione si sta estendendo da qualche tempo anche in Italia. E pure l’istituzione universitaria, al pari di altre istituzioni pubbliche e private, non sfugge a questa esigenza. Con la nascita dell’Agenzia per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (Anvur) e con l’avvio della Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr) universitaria da parte della stessa Anvur dovrebbe essere approntata in breve una classificazione delle strutture universitarie e della ricerca in Italia, a cui dovrebbe corrispondere una ripartizione delle risorse pubbliche di finanziamento. 



Inoltre questo modello si sta estendendo dalle strutture alle persone: nella misura in cui i parametri definiti dall’Anvur verranno utilizzati anche per la formazione delle Commissioni di abilitazione nazionale e per definire i termini del reclutamento dei nuovi professori. 

Naturalmente tale prospettiva ha suscitato reazioni di vario tipo. Per lo più si tratta di reazioni negative, a volte anche violente. Ampio spazio sui giornali – in buona parte schierati, chissà perché, contro l’esercizio di una valutazione – hanno avuto interventi di esplicito rigetto, da parte di firme ben note. Associazioni di studiosi appartenenti a specifiche discipline concorsuali hanno cercato di boicottare queste procedure: finora, peraltro, con scarso successo.



Personalmente ritengo che si tratti di reazioni non sempre giustificate e anzi, a volte, controproducenti. Il pericolo infatti è quello di dare ulteriore spazio a coloro che ritengono che l’Università italiana, per quanto riguarda alcuni suoi aspetti di scarsa trasparenza, sia del tutto irriformabile. E tuttavia non c’è bisogno di ulteriori delegittimazioni. Non ne ha bisogno il nostro Paese, che nella formazione e nella ricerca di alto livello può trovare una via d’uscita alla crisi che sta attraversando. Bisogna dunque considerare la valutazione dell’attività scientifica dei docenti universitari, e delle stesse strutture universitarie, nonché degli aspiranti docenti, come una vera e propria opportunità. 



Ma questa opportunità va usata nel modo giusto. In altre parole, se bisogna valutare, è necessario che ciò sia fatto bene. Uno dei punti più controversi in proposito consiste nel fatto che, da parte di alcuni responsabili dei processi di valutazione, si è pensato di sottoporre a un unico modello standard sia i risultati delle ricerche in ambito umanistico, sia i prodotti delle cosiddette “scienze dure”. E, sebbene in seguito siano state diversificate le modalità della valutazione nei due ambiti, rimane pur sempre l’intenzione di giungere a un’unica procedura, applicabile a ogni ambito disciplinare. Si tratta di una procedura di carattere quantitativo: cioè legata al numero di citazioni che un determinato lavoro o un certo autore hanno ricevuto in un periodo di tempo stabilito. Di modo che risulterebbe migliore il prodotto più citato. Come accade quando facciamo una ricerca su Google.

È chiaro però che, per le ricerche in campo umanistico, una tale impostazione non può funzionare. Non voglio dire – come peraltro alcuni hanno sostenuto – che queste ricerche non debbano essere soggette a valutazione. Tutt’altro. Senza un approfondimento in tal senso, infatti, rischiano di venir messi sullo stesso piano risultati che hanno diseguale validità scientifica, rischiano di essere considerati equivalenti scritti estemporanei e indagini frutto di un lungo e accurato lavoro. 

Il problema però, di nuovo, è che bisogna valutare in maniera appropriata. Ma come fare in questo caso? Si è pensato a un massiccio ricorso alla cosiddetta peer review: alla valutazione fra pari, al fatto cioè che un testo, uno scritto, un prodotto specifico possono essere valutati solo individualmente, considerandoli con un’attenzione di tipo qualitativo. Ma per questa via non tutte le questioni sono risolte. Chi garantisce infatti la competenza, la serietà, la buona fede dei revisori chiamati a fare una peer review? Chi sa dire se la loro valutazione è in ogni caso uniforme? Come mettere fra parentesi la discrezionalità che in questi casi è sempre d’obbligo? L’antidoto, qui, è il richiamo alla pubblicità e alla trasparenza nelle decisioni. Su questo bisogna spingere ulteriormente affinché lo sforzo messo in atto con la valutazione possa davvero dare frutti credibili. 

Ecco, allora, la vera posta in gioco. La valutazione non può essere intesa come una sorta di commissariamento dell’istituzione universitaria e dei suoi processi di ricerca da parte di un gruppo di persone nominate non si sa in che modo. La valutazione dev’essere intesa nei termini di un’autovalutazione, attuata dagli studiosi, dagli insegnanti, dai ricercatori, con criteri duttili e trasparenti, per ottenere indicazioni volte a migliorare la loro rispettiva attività. Si tratta dunque dell’occasione, da parte della comunità degli studiosi, di riappropriarsi della propria responsabilità di esaminare e, conseguentemente, di promuovere la ricerca scientifica in Italia. Si tratta di salvaguardare in tal modo l’autonomia della ricerca e il riconoscimento della dignità di chi è chiamato a svolgerla. È per questo che la valutazione dev’essere fatta, e dev’essere fatta bene.

 

Una panoramica generale, utile a comprendere la portata dell’intera questione, è offerta dal libro Valutare la ricerca? Capire, applicare, difendersi (Edizioni ETS, Pisa 2012), a cura di Paolo Miccoli e Adriano Fabris, che raccoglie contributi di vari esperti e di persone coinvolte nei processi di valutazione.