Se tutti i romanzi d’esordio fossero così, dovremmo andarne a caccia in libreria e non perdercene uno. Pink Lady di Benedetta Bonfiglioli è uno di questa razza specialissima. Si tratta di una storia per ragazzi che lascia il segno per il solo fatto di non volerlo lasciare: non vuole dare pugni nello stomaco, non vuole rappresentare il disagio giovanile, non vuole nemmeno documentare la scomparsa della famiglia. Eppure, quando deve farlo, non si sottrae e lo fa anche con toni decisi, ma sempre senza compiacimento; soprattutto la difficoltà è vista come punto di partenza per un lavoro di rielaborazione piuttosto che come inconsolabile e cinico punto di arrivo. Non vi è condanna esistenziale all’infelicità o al tormento comune.



La protagonista diciassettenne, Anna, vive il dolore per la morte improvvisa della sorella maggiore; si tratta di uno di quei casi in cui il dolore prova a dire l’ultima parola e vuole farsi simile a una colata di lava: tracima ovunque, scorre denso e distruttore invadendo tutte le pieghe della vita fino a solidificarsi in una roccia nera che sembra nessuno possa scalfire. Una roccia che irrigidisce e blocca il moto, che soffoca il respiro dei polmoni togliendo fiato alla vita e con esso i colori all’esistenza.



La famiglia di Anna è distrutta dall’evento, smembrata in monadi incapaci di guardarsi reciprocamente; gli psicofarmaci della madre riescono solo a inebetirla, ad allontanarla dal suo reale fatto di marito e figlia, di lavoro e cura di sé, un reale che sbiadisce e scontorna. E in questa situazione Anna prova a punirsi, come lo può (e sa) fare una ragazza di città; tale è infatti il valore del piercing ostinato così come dello sfiorare esperienze umilianti. Anche la stranezza del tingersi i capelli di rosa non è altro che un grido sordo, la ricerca di una visibilità che è venuta a mancare.



Sarà l’intervento deciso dell’insegnante di inglese (che presenza significativa e discreta!) a dare una svolta e permettere un vero cambio di registro: abbandonare Milano per recarsi a Belmonte, una cittadina nella Pianura Padana, terra di origine del padre.

Il trasferimento diventa l’occasione per Anna di incontrare nuovi amici, di carne, certo, ma anche una specialissima amica di carta, attraverso un diario scritto da lei sessant’anni prima e trovato nascosto all’interno di un cassettone. Grazie ai contemporanei sarà possibile per la ragazza ricominciare, senza dimenticare o censurare nulla di sé. Ma anche tramite il passato di quella coetanea vissuta in un tempo così diverso – in cui la Coca Cola non era che una frizzante novità e il toast un nuovo “panino americano” – Anna riesce a recuperare ed affrontare il suo stesso passato, unica condizione per vivere bene il presente e pensare a un futuro felice.

L’autrice tratta temi come la morte, l’amore e l’amicizia con estrema delicatezza, non lesinando qualche scena forte, mai compiaciuta, sempre funzionale alla storia e ai personaggi.

Sono ragazzi veri quelli della Bonfiglioli, in Pink Lady ritroviamo proprio i ragazzi che più sfuggono alla letteratura contemporanea per giovani in cui sembra possano trovare cittadinanza solo i disperati, i confusi e i tormentati a oltranza. L’autrice ci dice invece che insieme ci si può rovinare e star male, ma insieme ci si può aiutare anche a star di fronte a situazioni che sembrano troppo grandi e incomprensibili. Ci dice che si può studiare perché se ne ha voglia, perché certe materie interessano o anche solo per passare l’anno e andare avanti verso un progetto di vita. Ci dice che gli adulti non sono sempre insensibili e chiusi su loro stessi.

L’amore fra diciassettenni, nel duemiladieci come nel millenovecentocinquanta, sa essere intenso e sincero. L’autrice, madre e insegnante, lo sa ed ha il pregio di prenderlo sul serio: non lo liquida come una questione di ormoni ed istinti da soddisfare subito o tenere a bada a seconda della propria visione del mondo, ma lo propone come un fatto, come una risorsa. Sempre con molto rispetto e delicatezza. Talora forse si concede qualche tono un po’ troppo romantico e lirico, tuttavia non disturba perché appare almeno sincero.

In questo Belmonte, che sicuramente non è una metropoli, assistiamo a rapporti possibili e soddisfacenti, buoni per crescere e diventare adulti. Non è certo un errore in cui cade l’autrice, ma un dubbio che forse potrebbe emergere in qualche lettore, quello dell’alternativa tra città spersonalizzante e cittadina romanticamente bucolica. Sappiamo che invece non è così: ragazzi buoni, aperti, curiosi e pieni di domande, non ancora cinici o incattiviti esistono a ogni latitudine. Anche nelle città li vediamo spostare lo zaino andando verso scuola ogni mattina, scaraventarsi giù dalle scale della metropolitana, ritrovarsi a parlare di sé e di ciò che desiderano sui gradini dei monumenti, scambiarsi pareri sui vestiti più cool e la musica che piace tanto: sono in tanti a desiderare che nessun pezzo del reale venga tagliato fuori.

Meno male che questi ragazzi stanno iniziando a popolare anche le pagine dei libri e ad occupare qualche nostra ora permettendoci di incontrarli mentre siamo seduti sopra un prato o sull’asciugamano in spiaggia. Finalmente possiamo prendere in mano delle storie contemporanee che non hanno troppe pretese, se non forse l’unica di farci compagnia presentandoci una normalità possibile. Il che è di per sé enorme.