Un costo in termini sociali e non solo. Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo bacchetta così i 600mila studenti fuori corso nelle università del nostro Paese. Un limite tutto italiano che rappresenta il il 33,6 per cento del milione e 782mila iscritti all’anno accademico 2010/2011. “Dobbiamo dare un segnale forte – ha aggiunto – creando le condizioni affinché i nostri studenti possano seguire con regolarità i corsi e dare gli esami e soprattutto, nel caso in cui abbiano un lavoro, facciano una scelta: ossia quella del part-time”. “Il mio invito è alle scuole e alle università – ha concluso il ministro – perché il non fare è un costo che il Paese non si può più permettere”. Un occhio quindi all’istruzione e uno al portafoglio. Un capitolo caro quello della spesa pubblica a cui Profumo aveva già pensato nel decreto della spending review, dove si punta proprio a colpire la categoria degli svogliati con un aumento delle tasse universitarie, da attuarsi a discrezione di ciascun ateneo. Ogni università attualmente non può ottenere come finanziamento dalle tasse universitarie più del 20 per cento di quanto riceve dal ministero dell’Istruzione attraverso il fondo di finanziamento ordinario. Con il nuovo decreto nel computo di questo 20 per cento non verrà considerata la quota delle tasse che deriva dagli studenti fuori corso ed extracomunitari. Non una misura punitiva ma un incentivo affinché chi è in procinto di scegliere la facoltà lo faccia seguendo le proprie inclinazioni e valorizzando le proprie capacità. “Andrebbe rivisto l’intero sistema – dice Adriano De Maio, docente di Economia e gestione dell’innovazione nell’Università Luiss Guido Carli ed ex rettore del Politecnico di Milano, interpellato su questo tema da IlSussidiario.net -. Non ho avuto la possibilità di leggere le dichiarazioni del ministro, ma la mia impressione è che si parli per slogan”.



De Maio, pensa che sia corretto alzare le tasse per gli studenti fuori corso come è stato ipotizzato dal ministro Profumo?

Innanzitutto, va sottolineato che la presenza di studenti fuori corso è una peculiarità solo italiana. Non esiste nessun altro sistema scolastico europeo che presenti una simile stortura.

Secondo lei qual è la causa?



Il nostro sistema presenta troppi appelli: se venissero ridotti lo studente sarebbe obbligato a sostenere esami nei tempi previsti. Non sarebbe più possibile tirare troppo per le lunghe. Il risultato sarebbe immediato: al massimo in due anni si esaurirebbero le possibilità di poter dare esami e quindi si sarebbe obbligati a porre fine al corso di studi.

Il sistema universitario, quindi, non è in questo senso incentivante? 

Assolutamente no. Gli esami vengono sostenuti a piacere dallo studente, non esiste alcun obbligo di modalità o di tempo. E’ un circolo vizioso per cui chi è rimasto indietro con gli esami non segue le lezioni necessarie per prepararne altri. Fare un discorso basato sull’innalzamento delle tasse non serve a nulla. Occorre cambiare radicalmente tutto il sistema.



 

Come lo rivoluzionerebbe?

 

Prendendo esempio su alcuni punti dai licei: avviare una prima sessione durante l’anno, una supplettiva a settembre per chi non è riuscito a passare la prima, un po’ come viene fatto per le scuole superiori. Chi non ha superato né l’una né l’altra è costretto a ripetere l’intero anno. Se entro due anni non si è a pari con gli esami si viene automaticamente espulsi.

 

Un metodo piuttosto severo…

 

Affatto. Per quale motivo queste regole vengono applicate alle scuole superiori e non possono essere contemplate durante gli anni universitari?

 

La laurea triennale non è servita a disincentivare il fenomeno degli studenti fuori corso?

 

Sulla triennale è meglio stendere un velo pietoso. L’intero concetto su cui si basa è totalmente sbagliato: di fatto, è stato “importato” un sistema completamente avulso dal nostro, quello anglosassone, senza che si facesse nulla per integrarlo. Il metodo organizzativo relativo alla vecchia laurea aveva comunque una sua coerenza.

 

Il ministro ha invitato gli studenti-lavoratori a scegliere il part-time piuttosto che il tempo pieno. Purtroppo, però, non tutti hanno le possibilità economiche per poter fare questa scelta.

 

Dipende dalle facoltà. Alcune hanno necessità di frequenza alle lezioni per la presenza di laboratori o perché vengono trattati argomenti particolarmente complicati, mentre altre possono tranquillamente essere portate avanti andando a lavorare. Sfortunatamente, però, il nostro sistema è ancora troppo rigido e disincentiva chi, per forza di cose, è costretto anche a lavorare. Andrebbe fatta una riorganizzazione completa.

 

Da dove occorre ricominciare?

 

Serve un ragionamento complessivo che parta dalla prima elementare in avanti, facendo una riflessione globale che racchiuda l’intero percorso formativo. Purtroppo, si tende a ragionare per compartimenti separati: ciò che serve, invece, è una visione di insieme. Ad esempio, la scuola media unica rappresenta un colpo al cuore al sistema formativo italiano perchè non permette una vera e propria selezione che aiuti le scelte future. Inoltre, non ci sono una selezione e una seria valutazione dei docenti, per non parlare della scarsa attenzione alle attitudini del singolo. Eppure, bisognerebbe partire proprio di qui per incentivare un processo di orientamento che renda consapevoli i giovani di che cosa possono aspettarsi dagli anni in ateneo. Il difetto del nostro Paese è considerare la formazione un mezzo per acquisire un titolo e non delle competenze: questo ragionamento, sfortunatamente, non funziona.