Perché si boccia e soprattutto è opportuno/utile bocciare? Il duplice interrogativo si pone regolarmente alla fine di ogni anno scolastico quando nelle scuole vengono pubblicati sui fatidici tabelloni i risultati finali. Di rincalzo seguono altre domande: perdere un anno scolastico equivale a perderlo anche nella vita? Si può misurare la qualità di una scuola sulla base della severità dei suoi insegnanti? Di solito – e nemmeno quest’anno ha fatto eccezione – lo scottante problema delle bocciature è affrontato secondo due prospettive che mi sembrano pregiudizialmente precostituite e fatalmente ideologiche.
Da una parte si pongono quelli che potremmo definire gli “egualitaristi” (la sinistra scolastica): la scuola non è fatta per bocciare, ma per far crescere gli allievi sul piano delle conoscenze (pardon, delle competenze), potenziandone le capacità; quando la scuola boccia dovrebbe fare un profondo esame di coscienza perché significa che qualcosa non ha funzionato sul piano educativo. Qualche osservatore aggiunge ora a queste considerazioni anche il costo dell’allievo bocciato costretto a ripetere l’anno (meno bocciati uguale più risparmi). Dall’altra parte si situano i “meritocratici” (la destra scolastica): la scuola – per quanto non più selettiva come un tempo – ha il dovere delegatole dalla società di verificare in modo rigoroso la preparazione degli allievi per non vanificare il senso stesso della scuola.
L’eventualità di essere bocciati implica inoltre un significato etico perché richiama gli studenti alle loro responsabilità. Che scuola sarebbe se tutti, fin dall’inizio, sapessero di essere promossi? Una scuola così impostata non sarebbe che la riedizione in grande stile della stagione del famigerato “sei politico” degli anni della contestazione sessantottesca.
Considerata nella prospettiva dell’efficacia (inefficacia) educativa dell’eventuale bocciatura devo onestamente dire che nessuna delle due posizioni è del tutto convincente. Se la prima ha il merito di richiamare la scuola ai suoi doveri “promozionali” e non soltanto “selettivi”, alla seconda va riconosciuto il richiamo al rigore e alla responsabilità personale. Non si è promossi se non si lavora e merita il passaggio alla classe successiva solo chi si è dato da fare. E se va sfatata la diffusa convinzione che la scuola di qualità è solo quella composta da un corpo docente severo che boccia senza pietà, non si può neppure accettare l’idea che una scuola nella quale i bocciati sono relativamente pochi, o al limite nessuno, sia ipso facto una scuola “buonista” o mediocre.
La questione va impostata, a mio giudizio, secondo altri parametri. Mi piacerebbe che i consigli di classe – e più generale l’organizzazione generale della scuola – ragionasse nell’ottica educativa della personalizzazione della bocciatura. Prima di bocciare bisognerebbe, cioè, tenere conto delle possibili conseguenze che derivano da una decisione che non può esser trattata alla stregua di un atto soltanto amministrativo o peggio vista come la soluzione del problema dell’alunno lento/pigro o chiassoso/indisciplinato. A parità di condizioni (comportamento indisciplinato, mediocrità dei risultati, assenza della famiglia e quant’altro può influenzare un esito negativo) le reazioni possono essere sul piano personale molto diverse.
Ci sono allievi che dallo scacco scolastico ricevono ulteriori forme di umiliazione e di disconferma e peggiorano di conseguenza il loro rapporto con la scuola, altri per i quali invece la ripetizione dell’anno scolastico può rivelarsi nel tempo un’esperienza produttiva. Quanti bocciati hanno saputo egregiamente riscattarsi! Molto dipende da come viene motivata e gestita la bocciatura. Provo a indicare qualche ipotesi di soluzione. Mi piacerebbe che, come accade negli ospedali più attenti al malato dove i medici discutono la terapia con il paziente, anche i consigli di classe organizzassero appositi incontri – so che in qualche caso ciò avviene – con gli alunni bocciati e le rispettive famiglie per concordare un “piano di rientro”.
Perché non offrire, poi, a fianco dei corsi estivi per gli alunni “sospesi” (ex rimandati) anche iniziative di recupero per i bocciati senza lasciarli a se stessi per tutti i mesi estivi? Si potrebbero immaginare appositi crediti da capitalizzare nell’anno ripetuto. Anche se mi pare un po’ forzata, l’idea della bocciatura come “peccato sociale” (visto che essa ha un risvolto negativo anche economico e dunque provoca un danno) mi sembra tuttavia intrigante. Perché, allora, non organizzare delle forme di restituzione più o meno come accade per i bulletti che devono rimediare con qualche servizio sociale ai danni provocati?
E infine perché, in una prospettiva più generale, non tornare all’ipotesi – ventilata ai tempi del progetto riformistico del ministro Moratti – delle bocciature a scadenza biennale? Se si pensa alle difficoltà nel passaggio, per esempio, tra scuola media e istituti secondari, potrebbe dimostrarsi efficace il ricorso a un “cartellino giallo” al termine del primo anno con la lista delle materie da rimediare, attraverso apposite iniziative, nel corso della classe successiva nella prospettiva di evitare alla fine del biennio l’impietoso e definitivo “cartellino rosso” della bocciatura.