Il processo di spending review, avviato oramai diversi mesi fa dal Governo, ha coinvolto (anche se parzialmente) il settore universitario, suscitando molte critiche preventive, motivate dalla necessità di preservare gli investimenti in istruzione (in particolare, in formazione avanzata) e ricerca. A conti fatti, tuttavia, le norme contenute nel decreto legge 95/2012 sembrano piuttosto “leggere”: il paventato taglio di 200 milioni al fondo di finanziamento ordinario (Ffo) non è stato confermato, e il contenimento della spesa è perseguito attraverso una riduzione del turn-over (ossia, prevedendo che solo una parte delle risorse liberate dai pensionamenti possa essere riutilizzato per nuove assunzioni, con percentuali crescenti fino al 2016). Il Dl addirittura stanzia nuove risorse per il finanziamento di borse di studio, 90 milioni per il 2012, che tuttavia sono appena sufficienti a riportare l’entità del fondo ai suoi livelli precedenti.
Il dibattito di questi giorni, inoltre, si è incentrato su una ulteriore norma del Dl 95/2012, la quale prevede che nel computo dei limiti alla contribuzione studentesca non si debbano considerare le tasse studentesche pagate dagli studenti fuoricorso, dando il via libera di fatto ad una liberalizzazione delle tasse per questa tipologia di studenti. Tale norma è stata accompagnata dalle dichiarazioni del ministro Profumo, il quale ha spiegato che ci sono troppi studenti fuoricorso nelle università italiane, e questo fenomeno dovrebbe essere disincentivato attraverso l’innalzamento delle tasse e dei contributi (decisione che, comunque, rimane a discrezione degli atenei).
Nel complesso, dunque, gli effetti della spending review sugli atenei sembrano essere piuttosto contenuti, e non si sono levate particolari voci di protesta sul provvedimento – ovvio discorso a parte per la Cgil-Flc (Federazione lavoratori della conoscenza) che parla, incredibilmente, di “progetto di smantellamento del sistema pubblico e del diritto allo studio”.
Tutto bene, dunque? No. Come spesso accade, purtroppo, il dibattito sembra non focalizzarsi sull’unica questione chiave, che viene lasciata (volontariamente?) implicita. Infatti, i provvedimenti in oggetto nascono da una contingente esigenza di “fare cassa”, e non fanno emergere la domanda cruciale: qual è il livello di finanziamento desiderabile per i nostri atenei? E quanta autonomia dovrebbero avere gli atenei di autofinanziarsi? Ed in base a quali criteri dovrebbero essere assegnati i finanziamenti pubblici? Non affrontare queste domande fa sì che le attuali discussioni sulla spending review siano, in ultima istanza, piuttosto sterili.
L’esperienza degli ultimi anni dimostra alcune evidenze di cui occorre essere consapevoli, se si vogliono proporre policy alternative e credibili.
Primo: le risorse pubbliche per le università sono aumentate costantemente tra il 1994 e il 2010, ma questa dinamica non ha garantito migliori prestazioni generalizzate nel sistema. Molti atenei hanno fatto tesoro di queste risorse, e le hanno fatte fruttare, molti altri invece le hanno sperperate in assunzioni e/o promozioni spesso inutili, se non dannose.
Secondo: nonostante ci fossero regole molto chiare per evitare il superamento di una soglia eccessiva di spesa per il personale (che non poteva eccedere il 90% del Ffo assegnato), chi doveva vigilare − in ultima istanza, il ministero dell’Università − non l’ha fatto. Per questa ragione, più di un ateneo è andato di fatto in bancarotta (e poi salvato con altre risorse pubbliche). L’iper regolazione non è solo causa di eccessiva burocrazia negli atenei, ma è anche inefficace. Terzo: un meccanismo di finanziamento premiale da parte del ministero ha sortito effetti positivi, costringendo le università a competere sempre più sulla base delle qualità delle propria didattica e ricerca, anche se tuttora solo poche risorse sono ripartite in questo modo (oggi, circa il 10% del totale). Quarto: gli studenti hanno maturato maggiore consapevolezza, e si iscrivono ad atenei che offrono servizi e prospettive migliori, anche se la retta di iscrizione è più elevata.
Quali indicazioni derivano da queste evidenze? Il ministero dovrebbe smettere di emanare regole di dettaglio, che non fanno altro che ingessare l’attività degli atenei: gli esempi delle procedure per la valutazione dei prodotti della ricerca (Vqr) e per il reclutamento dei docenti sono talmente lampanti da non meritare commenti. Il ruolo più idoneo per il ministero dovrebbe, invece, essere quello di “regolatore a distanza”: fissare alcuni chiari obiettivi strategici (aumento numero di laureati, miglioramento della qualità della ricerca, ecc.) e assegnare le risorse pubbliche sulla base di questi. Si dovrebbe avviare una radicale azione di deregolamentazione e liberalizzazione, affinché gli atenei siano il più autonomi possibile con riferimento alla contribuzione studentesca, al reclutamento dei docenti, alla realizzazione di attività finanziate da terzi, alla definizione della propria offerta formativa e delle politiche di internazionalizzazione. In questo modo, la spesa pubblica sarebbe facilmente controllabile (il ministero sarebbe responsabile solo della propria quota di fondi, e gli atenei che necessitassero di ulteriori risorse dovrebbero autofinanziarsi) e gli atenei si differenzierebbero in modo esplicito sulla base della propria qualità.
I provvedimenti del Dl 95/2012 di contenimento della spesa, purtroppo, non vanno in questa direzione, e contengono invece ancora norme che imbrigliano l’autonomia delle università (come la centralistica disposizione della riduzione del turnover o il mantenimento di un limite massimo alla contribuzione studentesca). Se, pertanto, il provvedimento non fa danni al sistema universitario, neppure lo aiuta a migliorarsi, rinviando ancora una volta la discussione del problema del finanziamento e dell’autonomia del sistema universitario. Il nostro Paese, però, di tempo ne ha ancora poco, e non può sprecarlo: soprattutto quando si decide in merito all’università, la sede privilegiata della formazione del capitale umano.