Il modello centralista di governo non funziona più. Giusto dirsi la verità. Se in Veneto, con 3800 studenti in più, vi è la difficoltà di farsi riconoscere dal ministero i docenti che servono per coprire le esigenze, se Vicenza, con 400 studenti in più, è costretta a sua volta ad elemosinare posti in organico (l’Ust di Vicenza deve tagliare comunque 35 classi), tutto questo significa che non è più possibile far finta di niente. Anche perché il dimensionamento già attuato in Veneto dieci anni fa e i nuovi limiti stanno obbligando alle megascuole. Chi scrive, ad esempio, dirige un maxi-liceo di duemila studenti. Realtà nei fatti ingestibili.



In passato, lo sappiamo tutti, si è scialacquato anche a scuola, con orari scolastici, chissà perché (tanto nessuno controllava), aggiustati, con ore di lezione di 50 e persino di 45 minuti, oggi non più possibile. Con una scuola, inoltre, ancora oggi piena di tante, troppe materie, quando è possibile accorparle secondo i rispettivi profili culturali – ma anche secondo le accertate competenze dei docenti – con classi di concorso più funzionali alla scuola reale.



I nodi al pettine stanno dunque arrivando. Tutti assieme. Ma come uscirne in modo dignitoso, rispettando l’esigenza di riconoscere la scuola e la formazione come prime risorse di un Paese che voglia raccogliere le nuove sfide europee e globali?

Dal punto di vista della gestione generale basterebbe fare come la provincia autonoma di Trento, la quale determina e coordina tutta la formazione, compresa l’università, non solo a livello amministrativo ma anche nella scelta del personale, con concorsi ad hoc e una formazione sul campo nei fatti assente, invece, nel resto del Paese. Ma Trento ha fatto anche di più: gestisce in toto la sua università, comunque statale ma legata in concreto al suo territorio.



Se Trento, però, è sulla lunghezza d’onda, come applicazione del principio di sussidiarietà e come gestione dei servizi, dei Paesi europei più avanzati, il Veneto, con il resto del Paese, sembra fermo ancora al tempo che fu.

Basta considerare la decisione del governo Monti di impugnare la scelta intelligente della Lombardia, nel rispetto del nuovo titolo V della Costituzione (legge n. 3 del 2001), di avviare la sperimentazione della chiamata diretta dei docenti da parte delle singole scuole. Una novità positiva rispetto all’attuale caos, col vecchio turnover che impone cambi di docenti anche durante l’anno scolastico.

Nonostante questo immobilismo, che sta producendo il ritorno ad un vecchio centralismo (l’autonomia scolastica è figlia della prima legge Bassanini del 1997), con la scusa del controllo finanziario, qualcosa sembra si stia muovendo. Sempre nella speranza che non si tratti, ancora una volta, di un “cambiare tutto per non cambiare niente”.

Parlo della recente sentenza della Corte costituzionale, la quale, oltre alla bocciatura del dimensionamento delle scuole deciso dall’ex ministro Gelmini, ha avuto modo di mettere in evidenza come lo Stato continui a legiferare come se la riforma del Titolo V non ci fosse. Altro modo per dire che lo Stato, al di là di destra o sinistra al governo, non ne vuole sapere della sussidiarietà, non si fida cioè della responsabilità delle autonomie locali, non si fida dei propri cittadini.

Cosa ha fatto allora il legislatore, sapendo che la Corte avrebbe bocciato la sua legge? Ha introdotto una norma di salvaguardia che, per la riduzione della spesa, ha reso comunque 1000 scuole in Italia “acefale”, cioè senza preside e segretario (o direttore dei servizi). E la funzionalità del servizio? Domanda senza risposta. Ma i ministeriali, cioè i tecnici al servizio del “governo dei tecnici”, conoscono la realtà?

Non solo. Lo stesso ministero ha sottoscritto con i sindacati una nota per regolamentare la mobilità dei presidi. Norme su norme, dunque, in barba all’etica delle responsabilità, oltre che alle leggi in vigore.

Eppure le competenze dovrebbero essere chiare, per lo Stato, per le Regioni, per gli enti locali, per le scuole autonome. Ma tant’è.

La novità, invece, riguarda la bozza di accordo da poco uscita dalla IX commissione della Conferenza Stato-Regioni intitolata “Finalità, tempi e modalità di attuazione del Titolo V della Costituzione” sui temi della istruzione e della formazione. Se approvato, l’accordo Stato-Regioni dovrebbe entrare in vigore il 30 giugno 2013. Il testo di questo accordo tratta delle competenze legislative, del trasferimento delle funzioni amministrative, degli organici, del dimensionamento e del trasferimento dei beni e delle risorse. Sarà la volta buona? Le Regioni dovranno, quindi, assumersi in toto le risorse umane, strumentali e finanziarie delle scuole. 

Resta un dubbio: il 2013 dovrebbe essere, a meno di un anticipo ad ottobre, l’anno delle elezioni politiche e del cambio al Quirinale. Con giochi ad oggi difficilmente prevedibili. Il “governo tecnico”, vincolato per definizione alla verità dei problemi, come si espresse il primo Monti, avrà la forza per assumere decisioni adeguate a questa svolta epocale della nostra storia, con la fine cioè del centralismo ministeriale?

Avrà la forza e la lungimiranza per introdurre spicchi di etica della responsabilità in tutta la pubblica amministrazione, per farla diventare poi modello di virtù civile per tutto il nostro Paese?

Senza etica della responsabilità personale, lo sappiamo, non si esce dalla crisi che sta ridisegnando valori e priorità. Tutto il resto è chiacchiericcio politico-sindacale.

 

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