Il Tar della Lombardia ha lanciato una micidiale bomba a frammentazione nel complesso e barocco meccanismo del concorso per dirigenti. La sentenza, qualora confermata dal Consiglio di Stato, costringerebbe a ripartire da capo con la seconda fase del concorso, costringendo nel frattempo centinaia di scuole alla doppia/tripla reggenza. Il Tar si è trasformato, perciò, nella bestia nera dei commenti sindacali. Si obietta che la sola possibilità astratta di violare l’anonimato – fondata sulla trasparenza delle buste e sulle leggibilità dei nomi dei candidati – non basterebbe a bloccare il concorso, perché il Tar avrebbe dovuto anche dimostrare concretamente e caso per caso la violazione del principio. Ma questa e altre obiezioni equivalgono ad un’arrampicata sui vetri, giacchè la trasparenza delle buste è un fatto non contestabile. Solo complesse e lunghissime inchieste, che peraltro non sono compito del Tar, potrebbero appurare violazioni specifiche. Ma intanto uno dei cardini formali della regolarità – quello dell’anonimato – è saltato. 



La storia dei concorsi pubblici, dentro e fuori la scuola, è piena di violazioni dell’anonimato al fine di favorire candidati raccomandati e debitamente spartiti tra partiti, sindacati, associazioni. Materia da codice penale. Pertanto la difesa dei diritti dei vincitori di concorso, oggi deprivati dell’alloro, suona pelosa. Perché non anche dei molti clamorosamente esclusi? Si lamenta l’apertura di una guerra tra poveri. Ma è esattamente la struttura del concorso che l’ha generata. Prendersela, ora, con il Tar è come dare la colpa al termometro che rivela la febbre; ma la malattia nasce dall’apparato politico-sindacale-amministrativo che ha ideato il concorso o ne ha accettato il meccanismo, rassegnandosi al “male minore”, in nome di un’emergenza che esso stesso ha lasciato montare, apprestandosi nel frattempo a usarla per sé. 



A fronte di necessità lungamente disattese di rimpiazzare i dirigenti andati pensione, è stato messo in piedi un meccanismo concorsuale complesso e improbabile, che nessun partito e sindacato non ha mai messo in discussione, per la semplice ragione che ciascuno ha contribuito alla sua costruzione. L’essenza di questo meccanismo è che esso non consente di selezionare i più competenti. Quando il bando di concorso fu emanato, più di una voce denunciò l’inaffidabilità di un percorso selettivo cui mancava la possibilità di accertare l’essenziale di un concorrente: la quantità e la qualità delle sue competenze professionali dirigenti. Tutto l’iter era ed è fondato sulla verifica del possesso di conoscenze giuridiche, storiche, istituzionali. È il modello accademico. E stop. E, per di più, era stato concepito come macchinoso, complicato e ingestibile. Solo un esempio di ingestibilità: si può seriamente contestare al direttore dell’Usr di aver voluto accelerare i tempi lunghi della correzione delle prove scritte, a fronte delle necessità della scuola e delle attese estenuanti dei candidati? Certo che no. Solo che, per farlo, ha dovuto dividere in due sottocommissioni la commissione. Il che la procedura non permette, a meno che si vogliano, sia pure involontariamente, generare differenze di valutazione degli scritti. 



Ma questo vale a maggior ragione a livello nazionale, dove le discrepanze di criteri e di contenuti è giunta al massimo. Nuova Secondaria ha parlato di “aporie del centralismo amministrativo”. Prima si è aperto eccessivamente il ventaglio delle condizioni per concorrere. In Francia, per esempio, sopra i cinquant’anni non si può concorrere. Ma neppure cinque anni di ruolo sono considerati sufficienti. Su questa larghezza di ventaglio e di illusioni hanno lucrato autori di libri per quiz, formatori, sindacati, università. La spesa che ogni candidato ha sostenuto è variata dai mille ai 3mila euro. Poi si è passati all’operazione-quiz, il cui scopo principale è stato quello di sparare a zero nel mucchio per togliere di torno migliaia di concorrenti… che neanche Bava Beccaris in Piazza Duomo. Non ci si sofferma qui sui contenuti e sulla somministrazione, il tutto già oggetto di migliaia di ricorsi. 

Poi il fortunoso insediamento delle commissioni, presiedute da docenti universitari, lontani mille miglia dalla scuola reale. La formulazione dei criteri per i due scritti successivi è stata demandata alle singole commissioni regionali. Ma alcune commissioni hanno reso pubblici i criteri dopo gli scritti! I bandi regionali per gli scritti sono stati straordinariamente variegati. Le procedure amministrative sono nazionali, ma criteri, contenuti, metodi di valutazione sono divenuti regionali: dal centralismo formale all’anarchia reale. Solo il secondo scritto appariva utile al fine dell’identificazione delle competenze-chiave professionali dei candidati-dirigenti. Ma poiché la regola prescriveva la sufficienza in tutti i due scritti per passare all’orale,  bastava che il primo – dedicato a filosofie politiche e istituzionali generali – fosse giudicato insufficiente, perché il secondo – quello più funzionale alla verifica di competenze dirigenziali – non fosse neppure letto. E il candidato veniva bocciato!

C’è un altro modo per selezionare i dirigenti futuri? Quello che si pratica in Francia, per esempio. Restrizione del ventaglio di accesso ai concorsi, “storico” del curriculum professionale, breve scritto di due ore e colloquio personale approfondito con il candidato, condotto da persone sperimentate, provenienti dall’universo scolastico. In Germania seguono metodi analoghi.

Lamentarsi ora del futuro immediato di molte scuole, destinate a reggenze multiple, è esercizio tanto futile quanto ipocrita. Perché le inadempienze e le vaste complicità politiche, burocratiche e sindacali vengono da lontano. Il circolo vizioso è ormai secolare: prima si rinvia per anni la risposta alle necessità di organico; poi si mette insieme, con la logica dell’emergenza, creata dai lunghi rinvii, una procedura lunga, complicata, spesso impraticabile, formalmente nazionale ed equa, realmente localistica e iniqua; poi, ed infine, arriva la valanga dei ricorsi. In questa sarabanda nessuno si assume le responsabilità e le colpe, che vengono scaricate sull’oggettività fatale di un labirinto politico-sindacale-amministrativo, figlio di tutti e di nessuno. Ora finalmente si è trovato il capro espiatorio nel Tar della Lombardia. Sì, perché altri Tar regionali, di fronte a palesi violazioni, hanno fatto orecchie da mercante.

E ora? A parte il riferimento al pensiero filosofico di Gino Bartali “Gli è tutto da rifare!”, come se ne esce? Se il Consiglio di Stato respinge il ricorso dell’Usr lombarda, non resterà altra strada che ripetere gli scritti e gli orali. Ma la lezione finale da trarre è semplice: basta concorsi siffatti! Esistono sistemi di reclutamento più efficaci, più efficienti e più brevi per selezionare il personale, dagli insegnanti ai dirigenti. Il mix tra amministrazione, politica e sindacati e, in qualche caso, associazioni professionali ha finito per affidare all’amministrazione le decisioni strategiche fondamentali, riducendo partiti e sindacati a complici ancelle del sistema amministrativo. È questo mix che occorre far saltare. La bomba del Tar lombardo potrebbe contribuire a questo effetto. Forse.

 

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