Il ministro Profumo aveva annunciato alcune settimane fa una iniziativa del governo per la valorizzazione della capacità, del merito e della responsabilità educativa e sociale nell’università e nella ricerca. L’annuncio non ha avuto seguito, ma ha riacceso il dibattito su temi decisamente importanti per la vita delle nostre università: il diritto allo studio, il rapporto fra equità e merito, il valore legale della laurea, i meccanismi di selezione. 



Su un punto, in particolare, la proposta del ministro imponeva di prendere posizione: la definizione del ruolo e dei tempi della didattica rispetto all’attività di ricerca. Non c’è dubbio, guardando alle misure articolate e complesse che sono state introdotte in questi anni per “valutare” il sistema universitario e cercare in questo modo di farne crescere la qualità e la competitività, che si sia puntato quasi esclusivamente sulla ricerca. Sono stati praticamente azzerati gli incentivi all’impegno nella didattica (con il pretesto che i suoi risultati sono difficilmente quantificabili) e si è addirittura arrivati a considerare irrilevante per la scelta dei nuovi professori la verifica della loro attitudine appunto ad insegnare, oltre che a scrivere libri e articoli, attrarre finanziamenti, registrare brevetti. 



Cresce il numero dei sostenitori della distinzione “competitiva” fra le università dove i professori fanno prevalentemente ricerca e insegnano poco o per niente e quelle dove ci si dedica invece all’insegnamento. Le prime recluteranno i talenti più brillanti e potranno pagarli di più; le seconde si dovranno accontentare di quelli che rimangono. I «centri di eccellenza nella ricerca» – così si legge nello studio pubblicato recentemente dalla Fondazione Giovanni Agnelli su I nuovi laureati – si costruiscono «anche a costo di una didattica limitata e/o scadente».

Il ministro sembrava essersi schierato con coloro che rifiutano questa conclusione e, senza per questo pretendere che ovunque si facciano le stesse cose nello stesso modo, rimangono convinti che nell’idea stessa di Università l’attività didattica come insostituibile strumento di trasmissione del sapere sia inscindibile dall’attività di ricerca. Era questo il senso di alcune proposte molto concrete contenute nella bozza del provvedimento che sembra essersi, purtroppo, arenato: il garante degli studenti, l’assegnazione di una quota significativa dei fondi premiali per i professori in base alla valutazione della didattica e l’obbligo di tenere «personalmente» almeno 100 ore di lezione l’anno. 



Sappiamo tutti che questo è uno degli aspetti – insieme alla gestione dei concorsi – per i quali più spesso i docenti universitari vengono criticati, anche a discapito del rispetto, che non dovrebbe mai venir meno, per i tanti che non sono mai stati né assenteisti né nepotisti. Questo problema deve essere affrontato una volta per tutte. 

E occorre farlo rifiutando la soluzione che prevede di esonerare i più bravi dal fastidio di doversi dedicare agli studenti e chiudendo la strada all’argomento per il quale si chiederebbe un maggiore impegno didattico solo per “coprire” i buchi aperti dal taglio delle risorse. Questi buchi esistono e il taglio è drammatico, ma quanti si sentono davvero di sottoscrivere la tesi affidata da tre professori di Bologna alle pagine del Manifesto e per la quale il meccanismo delle 100 ore obbligatorie costringerebbe i professori «a tenere corsi per i quali a volte sono scarsamente competenti»? Si tratta di circa 2 ore la settimana, alle quali ne vanno aggiunte più o meno altre 5 per adempiere gli obblighi di assistenza agli studenti previsti per i professori a tempo pieno. È arduo affermare che il tempo che rimane in una settimana e in un anno di normale lavoro non sia sufficiente per maturare un’adeguata competenza e per coltivare i più ambiziosi progetti di ricerca. Così come fa gran parte dei docenti delle università italiane, che proprio per questo avrebbe il diritto di veder riconosciuto che tutto ciò è semplicemente normale e dunque può tranquillamente valere per tutti.