TFA test di ammissione: uno studente risponde a Silvia Avallone – Gentilissima sig.ra Avallone, mi sono sentito molto toccato dal Suo articolo apparso oggi sulle pagine del Corriere della Sera, pertanto mi permetto di reagire, seppure di corsa e in modo poco sintetico. Sono uno studente di Lettere classiche e ormai sto per iniziare il quinto e ultimo anno – almeno, così spero -, dunque si è fatto anche per me tempo di incominciare a pensare alle diverse opzioni per il mio futuro; sia per passione personale sia per necessità lavorative non posso eliminare dal mio orizzonte l’ipotesi di intraprendere la strada del Tfa.
È pur vero che si tratta di una strada lunga e tortuosa, e che si sarebbero forse potute trovare vie migliori per l’abilitazione alla professione insegnante; eppure è l’unica strada a oggi concessaci e, rispetto all’assoluto nulla che fino a poco tempo fa si trovava di fronte chi desiderava diventare insegnante, si tratta già di qualcosa, e come tale va dunque percorso e preso sul serio.
La prima parte del Suo articolo descrive in modo molto bello tutta la positività e il fascino della professione dell’insegnante, che anche io ho visto nei miei professori o nei miei amici più grandi che già hanno iniziato la loro carriera lavorativa, tanto da rinfocolare anche in me il desiderio di avere l’occasione di salire in cattedra e avere a che fare con i giovani. A un certo punto, però, si fa prendere dallo sconforto e fa propria l’affermazione che «a questo prezzo, non ne vale la pena». Perché? Se si è intravista una possibilità di bene, quale motivo, per quanto cogente possa essere, può impedire di perseguirla? L’abbandono di essa, in fondo, non può essere imputato alle circostanze, bensì alla scelta personale, per quanto dalle circostanze stesse la scelta prenda inizialmente spunto.
Perché non è possibile incidere sulla formazione dei giovani anche solo facendo il supplente? Certo, non sono così ingenuo da negare il valore di un percorso educativo e formativo che si prolunghi nel tempo – io stesso ho avuto esperienza della difficoltà che si ha cambiando continuamente l’insegnante di una materia -, eppure sono convinto che gli alunni, se si trovano davanti un professore vivo, appassionato, che possa comunicargli qualcosa dal punto di vista umano, subiscano un contraccolpo immediato e immediatamente ne traggano insegnamento, indipendentemente dalla quantità di nozioni che il docente riesce a trasmettere loro o dal tempo in cui egli insegna in quella classe, tempo che può solo confermare un’impressione già chiara al suo inizio.
Esattamente, qual è il motivo per cui vale la pena insegnare? Lei accenna al fatto che lo scopo valido della scuola è che gli alunni diventino «cittadini liberi e intraprendenti». Ma si può davvero desiderare che il ragazzo che mi trovo di fronte diventi un “cittadino”? Mai nessun mio insegnante ha voluto che io diventassi un “cittadino”, e li ringrazio perché non mi hanno considerato come una mera serie di diritti/doveri sanciti da leggi. I professori che ho più amati hanno avuto a cuore che io mi formassi, appunto, come persona, dunque in tutte le mie dimensioni. Questo lavoro richiede molto più impegno, molto più rischio personale, ma per meno di questo rischio varrebbe la pena spendere tempo e denaro? È al livello di questo impegno di tutto sé stesso che si colloca la dignità del docente, non altrove.
Forse parrò un ingenuo, animato da una sorta di fuoco di gioventù che non tiene conto dei problemi reali del Paese e del suo sistema scolastico, oramai in sfacelo. Ma se questa ingenuità è l’unico modo perché l’affascinante professione dell’insegnante non perisca sotto il duplice attacco portato dalle panie del legislatore e dallo scoramento di chi quella stessa professione vorrebbe intraprendere, vale la pena tenerla desta.