Il varo delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo della scuola (materna, primaria, secondaria di primo grado) è passato senza sollevare particolari questioni; o meglio, le questioni sollevate appaiono marginali e possono perciò tranquillamente essere rimandate, cioè, almeno per ora, ignorate. Nulla da spartire con la vivacità con cui si è discusso (e si discute) di TFA, concorsi, graduatorie a esaurimento. Sembra proprio che ai pochi (e sempre più flebili) tentativi di porre a tema alcuni aspetti del problema culturale (e politico) della scuola italiana non venga ormai più riconosciuta dignità di proposta culturale, sempre discutibile, ma mossa innanzitutto dalla volontà di permettere alla scuola di riprendere la sua capacità di proposta.



Essi vengano letti come occasione per schierarsi a favore o contro, secondo lo schema da troppo tempo in auge nel confronto politico che caratterizza il nostro Paese e quindi il loro valore appare dipendere dalla consistenza numerica dei proponenti. E quand’anche vengano presi in considerazione si finisce sempre con il sostenere che si tratta di ragionamenti giusti, ma fuori tempo, in ultima analisi interessanti ma astratti e per questo non in grado di misurarsi utilmente con le concrete condizioni in cui la scuola vive e con i problemi e gli appuntamenti che oggi essa si trova di fronte. Non è così che si aiuta la scuola.



Tutti riconoscono la perdita di efficienza che il sistema formativo palesa. Essa si evidenzia in modo generalizzato nella caduta dei risultati di apprendimento; nel manifesto disinteresse per la scuola come ambiente di apprendimento presente, a partire dalla metà del ciclo primario, nella quasi totalità dei giovani; nell‘emergere, a partire dalla pre-adolescenza, di una frattura tra chi – nella gran parte dei casi perché sostenuto dalle condizioni familiari e di contesto extrascolastico – mantiene un rapporto significativo con la scuola e chi abbandona ogni speranza di comprenderne il senso e l’utilità.



Riconoscere questi dati sarebbe dovrebbe stimolare un ripensamento di ciò che la scuola rappresenta oggi nelle società occidentali, avendo il coraggio di interrogarsi anche su aspetti e scelte che la caratterizzano fin dalla sua origine, disposti a prendere in considerazione punti di vista fino a oggi esclusi da ogni ripensamento e verifica. Tra questi sta certamente il modo con cui la scuola, attraverso un lungo confronto politico e culturale, è diventata l’occasione più significativa offerta a ciascuno per rendere concreta l’esigenza di uguaglianza tra tutti i cittadini.

Se certamente questo obiettivo deve rimanere fermo, occorre forse ripensare al modo con cui alla scuola è stato chiesto di perseguirlo attraverso l’identità dei percorsi e delle occasioni. Questa scelta appare oggi uno dei punti più critici (basti pensare al modo con cui si sta definendo la curricolarità verticale e ai problemi irrisolti della scolarizzazione nella fascia adolescenziale) ed è stata messa in discussione non da una diversa proposta, ma quando si è posta attenzione a coloro per cui la scuola stessa è chiamata a operare (inserimento dei diversamente abili, esigenza di personalizzazione, primato dell’apprendimento).

Nel momento in cui l’attenzione si è spostata dalla dimensione politica a quella educativa, dalla scuola come strumento di una politica alla scuola come strumento al servizio del giovane, emerge un dato: non l’uguaglianza (dei contesti, delle proposte, ecc.), ma la differenza è in realtà in grado di condurre verso l’equità (unicuique suum tribuere).

Un mutamento di prospettiva così radicale non può essere l’esito di una riforma legislativa, ma solo di un mutamento culturale, e non solo in chi nella scuola opera. Per riprendere il filo di una critica che non si accontenti di denunciare le mancanze, che pure sono molte e pesanti, occorre ripartire dalle persone, scelta questa che, per incidere sulla realtà, necessita di soggetti disponibili a muoversi su due distinti scenari, tra loro non separati ma complementari.

Il primo di questi scenari riguarda la cultura professionale dell’insegnante che deve uscire dalle strettoie in cui è da quasi due generazioni costretta, ossessivamente orientata a una didattica chiusa tra conoscenza disciplinare (sì, anche alla scuola primaria e presto anche alla scuola dell’infanzia) e tecniche della comunicazione didattica. Occorre superare questa situazione favorendo la rinascita nell’insegnante di una cultura pedagogica che accompagni e dia senso al suo essere insegnante. Anche se l’azione propriamente definita come didattica rappresenta certamente il momento operativo centrale dell’insegnamento, essa non esaurisce la responsabilità dell’insegnante. Dalla sola didattica infatti non sono identificabili le ragioni per cui si opera e gli obiettivi che si intendono perseguire, i soli in grado di far emergere e mantenere nel tempo un effettivo interesse del giovane per la sua condizione di allievo-studente.

Riportare sostanzialmente l’esigenza di dare unità all’esperienza scolastica alla sola dimensione organizzativa, come è avvenuto con la creazione di funzioni “speciali” che si affianchino a quelle tradizionali dell’insegnante (figure di sistema, ecc.), rappresenta una riduzione (mortale?) della prospettiva delineata. Ovviamente anche questa scelta può far parte di un progetto di cambiamento della scuola, ma la creazione di figure di sistema ha senso solo se rappresenta l’adattamento dell’organizzazione a una scuola che si misura con la domanda che in essa esprimono studenti e corpi sociali ed espressione quindi di una concezione più ampia della professionalità docente. Diversamente essa non rappresenta altro che un’ulteriore burocratizzazione di un sistema che già ora di burocrazia sta morendo.

Occorre in altre parole – ed è questo il secondo scenario – che ogni scuola acquisti in prima persona la disponibilità e la capacità a interrogarsi e a dare risposte a una situazione che la vede sempre più in difficoltà sia nel far fronte alla domanda di conoscenza che tocca le giovani generazioni (oramai tutte orientate a cercare le risposte alle loro domande in altri mondi il più possibile lontani da quello della scuola), sia nel proporre ragioni non formali che giustifichino la condizione specifica di vita propria della scuola e che per questo devono essere riconosciute partendo dalla condizione che l’allievo-studente è chiamato a vivere.

Nessuno in questo momento rimpiange la pedagogia di Stato insita nei tradizionali programmi ministeriali. Se è giusto che sia finita occorre però che il vuoto lasciato possa essere riempito da una proposta pedagogica in grado di sostenere un percorso tanto grande, lungo e significativo quanto quello che la scuola oggi propone (esige?) a tutti i giovani. Diversamente, al di là delle intenzioni, il vuoto sarà riempito da una prospettiva sostanzialmente nichilista, anche se mascherata dalle esigenze della funzionalità. Come è però possibile che il vuoto venga riempito da una prospettiva positiva se non si creano le condizioni perché questo avvenga? E della difficoltà a individuare le condizioni necessarie tutti hanno responsabilità vera e reale: la politica, l’amministrazione, la cultura “alta”.

Un nodo centrale della questione posta è chiaramente messo in luce dal paradosso cui da anni assistiamo. L’accettazione (anche costituzionale) dell’autonomia delle istituzioni scolastiche è stata occasione più di interventi del centro (leggi, regolamenti, circolari, ma anche creazione di strutture burocratiche) che non di effettivo affidamento alle singole istituzioni scolastiche di compiti e responsabilità definiti, soprattutto in grado di sostenere nel tempo la costruzione di una proposta stabile e motivata, condizione quest’ultima essenziale perché l’autonomia incida effettivamente nell’offerta formativa della scuola e possa così diventare parte integrate della cultura professionale di dirigenti e insegnanti.

Questo vuol dire prima di tutto affidare alle scuole il compito di scoprire (riconoscere) e adottare un criterio – cioè un senso, una ragione non formale – che guidi le sue scelte e che permetta loro di riconoscersi in una dimensione di comunità professionale volta all’educazione e all’istruzione, al servizio di un contesto ugualmente definito e chiamato a concorrere alle scelte.

Per questo occorre che la cultura pedagogica ritorni a misurarsi costantemente con la scuola in atto; per questo occorre che gli appuntamenti significativi sotto il profilo normativo non vengano più ridotti alla loro dimensione amministrativo-burocratica; per questo è necessario che gli insegnanti esercitino la loro autonomia non solo seguendo la freccia che scende dall’alto, ma imparando a guardare verso l’alto, coscienti che la loro professionalità li rende corresponsabili non solo del loro insegnamento individuale ma anche della scuola in cui operano.

Solo a queste condizioni ogni scuola potrà essere in grado di essere riconosciuta dai propri allievi come “ambiente per l’apprendimento”.

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