La dimensione storica risponde alla domanda: da dove vengo? E la risposta è che vengo da lontano, da … Ciò che mi ha portato ad essere quel che sono non è tanto l’acquisizione consapevole del metodo storico quanto il fatto che i miei nonni abbiano combattuto nella prima guerra mondiale e abbiano cementato nelle trincee l’unità con tante persone di differenti regioni e strati sociali che prima erano solo “legalmente” parte di un unico Regno.



A un anno esatto dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’unificazione italiana sorprende che un testo ministeriale riduca la storia ad un “campo disciplinare” il cui “scopo principale [è] offrire metodi e saperi utili a comprendere e interpretare il presente”.

La storia è una dimensione dell’uomo e in un testo che vorrebbe mettere al centro la persona e lo sviluppo delle sue competenze questa riduzione di una dimensione dell’io e della realtà a una questione di metodi e di “campo disciplinare” suona un po’ come il segnale dell’incapacità di “percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle ‘risorse’ di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto” (Benedetto XVI al Reichstag di Berlino, 22 settembre 2011).



La contraddizione tra le premesse “umanistiche” delle Indicazioni e le declinazioni disciplinari funzionali ad un sapere compartimentato e non aperto alla globalità dell’esperienza umana, tante volte lamentata nei testi ministeriali, si ripete ancora una volta.

Ciò è tanto più grave perché al centro delle Indicazioni dovrebbe esserci il “bambino”, mentre  le Indicazioni di Storia proseguono dissertando sulle caratteristiche della “storia generale”, anche qui affermando che le conoscenze della storia generale, quelle che, secondo gli autorevoli estensori, “possono essere trasferite nell’insegnamento per fondare il significato della storia da apprendere e per promuovere la cultura storica degli alunni” non sono soprattutto quelle che più potrebbero rispondere all’esigenza del bambino di comprendere le proprie radici, ma quelle “accuratamente selezionate sulla base della significatività e dell’utilità per la comprensione del mondo, a partire dalle specifiche progettazioni curricolari”.



A parte il positivo riconoscimento della libertà per gli insegnanti nella predisposizione delle progettazioni curricolari, rimane pervasivo l’invito a “scegliere” i contenuti sulla base dell’utilità per la comprensione del mondo attuale, il che implica una “lettura” della storia dell’umanità che è ben riassunta nel catalogo dei temi suggeriti dallo stesso testo, che illustrano una linea interpretativa da “sociologia storica”, attenta a privilegiare come grandi svolte dell’umanità le rivoluzioni neolitiche, l’industrializzazione e la globalizzazione, relegando in secondo piano gli eventi di rottura tra i periodi storici riconducibili a svolte religiose e politiche o a scoperte geografiche e tecnologiche. 

Insomma si rimane nell’ambito di una storia che vuole insegnare schemi, sistemi (qui definiti quadri di civiltà) ovvero le “idee” di un periodo, invece che l’incontro con la complessità, l’imprevedibilità e la libertà con cui l’uomo assume in ogni periodo storico la dinamica dei rapporti umani e l’interazione-trasformazione della natura.

La proposta delle Indicazioni, apparentemente neutra per il riferimento al valore del metodo come unico parametro “oggettivo” dell’insegnamento, in realtà è decisamente orientata a favore di una visione progressista, dove la verità è solo filia temporis e la maturità consiste nell’adattarsi alla crescente complessità della realtà e nell’utilizzo del passato solo in funzione del presente, perché “tutti gli insegnanti anche quelli di storia primaria dovranno stimolare la conoscenza di aspetti e processi del nostro tempo e della nostra storia recente, durante tutto il percorso degli studi, assumendo l’opzione metodologica di mettere in rapporto passato e presente all’interno dei temi che verranno via via affrontati”.

Grave appare poi il distacco tra il valore del metodo e i contenuti della storia; l’opzione metodologista che ritiene secondari i contenuti è fallace (come ha ben messo in luce in un precedente intervento Lorenzo Strick Lievers) sia sul piano critico sia sul piano del rispetto della dinamica evolutiva del bambino, sempre che naturalmente si voglia educare il bambino a “pensare storicamente” e non invece a utilizzare la storia per altro (la giusta sottolineatura della necessità di “far acquisire conoscenze e atteggiamenti utili all’esercizio della cittadinanza attiva” in questo contesto finisce per apparire l’invito a finalizzare l’insegnamento della storia all’apprendimento, attraverso riferimenti storici, dei valori del buon cittadino), il che snaturerebbe la dimensione storica stessa.  

In un contesto di grandi trasformazioni (come recita giustamente la premessa delle Indicazioni) ci saremmo aspettati un testo ministeriale che aprisse compiutamente la scuola italiana all’incontro con la realtà attraverso le discipline (usando quindi le discipline come strumento e non come scopo) e alla valorizzazione di tutte le risorse interiori del bambino (con le sue domande tipiche: da dove vengo?, chi sono io?, qual è il mio destino?, come è fatta la realtà?) predisponendo una rilettura degli aspetti antropologici delle diverse discipline che potesse aiutare a sviluppare queste domande in modo razionale e personale.

Peccato, un’altra occasione perduta. Non rimane che sperare, come al solito, nella passione educativa degli insegnanti.

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