Hic Rhodus, hic salta(-us); nell’inglese standard corrente: here is Rhodes, jump here (oggi la traduzione può sembrare inutile; ma se il presente «quotidiano approfondito» domani dovesse finire – «a talune condizioni», per esempio ricorrere molto all’inglese – in una fascia “A” del ranking delle riviste…).



Come il saltatore di Esopo, l’università è innanzi a uno snodo assai difficile. Si incrociano e vengono messi seriamente alla prova i due più controversi interventi «di riforma» che ne hanno toccato le funzioni: il sistema della «valutazione» affidato all’Anvur; il modello concorsuale incentrato sull’«abilitazione nazionale» e sulla selezione dei commissari in ragione della loro «operosità» scientifica.



È opportuno anzitutto liberare il campo da alcuni argomenti speciosi addotti di solito contro chi intenda sottoporre a critica le soluzioni escogitate dal legislatore e dagli applicatori della legislazione: si conviene sul fatto che la valutazione è necessaria; che non averla sufficientemente praticata ha provocato non lievi disfunzioni nel sistema universitario; che avere rinunciato a «buone pratiche» su questo versante ascrive un’innegabile responsabilità ai più potenti rappresentanti dell’«accademia». Ma chi rileva i difetti del modello e ne fa notare inapplicabilità per aspetti non secondari non può essere liquidato come espressione della vischiosa «resistenza degli apparati» e sodale nell’azione avversa della corporazione dei professori. Tanto più che il sistema oggi proposto può condurre a consolidare vecchie logiche «di gruppo» e a crearne di nuove e peggiori.



Seconda notazione preliminare: benché ormai da qualche tempo i concorsi tendano ad avere un seguito «giudiziario», nella fase attuale si preannuncia una straordinaria, e per l’innanzi mai conosciuta, stagione di contenzioso, che attinge perfino il livello della verifica della compatibilità costituzionale, e tocca ogni fase del processo: definizione dei criteri, ranking delle riviste, bandi per il reclutamento dei commissari, bandi per l’attribuzione delle idoneità, e poi eventuali atti di nomina, chiamate, ecc. Ora, se la missione dei regolatori è quella di prevenire e comporre il conflitto, conseguendo obiettivi conformi al principio di «buon andamento» dell’amministrazione, quanto sta già avvenendo e quanto si preannuncia manifesta subito un inedito difetto di performance. 

Insomma il sedicente autore esopeo dello strabiliante salto compiuto a Rodi (ci era stato assicurato che i meccanismi di valutazione proposti ci avrebbero reso degni dei nostri omologhi in altri, più avanzati, Paesi), chiamato a ripetere il gesto atletico, si mostra ben lontano dal riuscire a superare l’asticella.

La prima questione riguarda la posizione istituzionale dell’Anvur: per le modalità di designazione dei suoi componenti e per la radicale carenza di una regolazione eteronoma della sua attività, essa, da un lato, non è strutturalmente indipendente dalle sedi della decisione politica (anzitutto dal competente ministro, e dall’apparato intorno a lui incardinato); dall’altro, essendo separata dalle società scientifiche e comunque dalle comunità dei professori in qualsiasi modo esse si organizzino, non è tuttavia, innanzi a queste, trasparente e prevedibile nelle determinazioni. E poiché i valutatori sono membri dell’accademia, il risultato non è quello – virtuoso – di tenerli al riparo della cattura da parte dei valutati. Ma è quello – meno virtuoso – di immetterli in un contesto «cetuale», in cui la posizione di forza a essi attribuita può retroagire nella comunità scientifica di riferimento in termini di eccesso di ruolo.

La seconda grande questione deriva dalla logica posta a base dei criteri di valutazione: si è ritenuto di predefinire standard di tipo pressoché esclusivamente quantitativo, irrigiditi nella loro bronzea fissità.

Fin dove un metodo siffatto possa condurre lo si è potuto constatare quando è stato formulato il ranking delle riviste scientifiche. Nella specie, il criterio proposto è stato quello della «piramide»: posto un certo numero di riviste alle quali sia riconosciuto carattere scientifico, tra esse quelle qualificabili come di eccellenza debbono essere necessariamente un sottomultiplo di quelle della fascia più bassa, e queste a loro volta un sottomultiplo di quelle della serie ancora inferiore. La determinazione di tali rapporti quantitativi è affidata all’Anvur. Dunque le riviste eccellenti debbono essere poche, meglio: pochissime. E ciò in forza di un assioma indiscutibile: «non è possibile che siano molte». Non è ammessa dimostrazione diversa su base storica.

Quando è stato approvato il regolamento recante i criteri e parametri per la valutazione dei candidati all’abilitazione per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, gli effetti distorsivi cui tale metodo e tali determinazioni possono condurre si sono rivelati con particolare crudezza. Si è stabilito che, in sostanza, solo gli articoli pubblicati, nei dieci anni precedenti, in riviste classificate oggi in fascia “A” sono spendibili nel concorso: ecco, in prima applicazione, il collo di bottiglia formato col ranking. 

È rimarchevole che abbia suscitato qualche sorpresa e qualche contrarietà la decisione del direttivo dell’Associazione italiana dei costituzionalisti di presentare in proposito ricorso al giudice amministrativo prospettando la violazione, per il carattere retroattivo del criterio, dei princìpi di eguaglianza-ragionevolezza e di affidamento. Sorpresa e contrarietà che – se manifestati da giuristi e non da cultori non accademici di filosofia teoretica (è accaduto anche questo) – potrebbero aprire interrogativi inquietanti sul grado di diffusione della cultura della Costituzione, essendone stati messo in gioco alcuni capisaldi.

Ma il criterio quantitativo può condurre ben oltre.

La valutazione della produzione scientifica (nei settori non assoggettabili a criteri bibliometrici) dipenderà pressoché esclusivamente (per l’ingresso nelle commissioni di concorso) o largamente (per l’abilitazione) dal numero di lavori prodotti. 

Sono, in tal modo, oggettivamente premiate l’eccellenza e la virtù? Si può nutrire qualche dubbio.

L’eccesso di produzione è anch’esso un vizio, e tale è stato a lungo considerato. Sono virtù la capacità di lasciar sedimentare la riflessione, di sottrarsi all’occasionale, e la completezza della ricerca, il rigore nel metodo: insomma la ruminatio scripturarum (ruminating of writings: c.s.),  di cui parlava Gregorio Magno (che però era Dottore in contesto diverso da quello universitario). Vi sono certo casi di particolare facilità di scrittura. Ma molto spesso certe produzioni sterminate sono anche oscure e ripetitive, e perfino segnate dall’esposizione di tesi opposte e inconciliabili con riferimento a uno stesso problema o a una stessa fattispecie: l’autore non conserva memoria di quanto scritto l’anno o il mese addietro, o cento pagine innanzi. Naturalmente poi vi sono stati e vi sono alcuni (molti, a tratti), che, cooptati per ragioni diverse dall’eccellenza accademica, e ammantati nella retorica dell’«alta qualità intrinseca dell’opera» e dell’«alta cultura che non si traduce in scritto», sono rimasti semplicemente improduttivi: ma questi meriterebbero sanzioni ben diverse dall’esclusione dalle commissioni di concorso o dalle progressioni «di carriera».

In tempo di Internet, poi, un certo orientamento alla produzione ipertrofica ma di bassa qualità si è accentuato. Oggi è relativamente facile assemblare materiali attinti alla “rete”, costruendo prodotti rigonfi di dati di seconda mano e di descrizioni, spesso anche assai ponderosi: non di plagio si tratta, beninteso (almeno, quasi mai), ma di parafrasi di idee consolidate, talvolta intrise di pregiudizi e non comprovate, sostanzialmente inutili nel progresso della conoscenza scientifica. Insomma l’accademia perde i pensatori forti e dà ricetto a molti Bouvard e Pécuchet, liberarsi dei quali sarà lungo e difficile.

E, con l’impiego degli stessi mezzi, un altro fenomeno già si produce, indotto dalla presa d’atto del metodo seguito nella valutazione Anvur: la parcellizzazione dei lavori in scritti brevi e numerosi, di rapida compilazione. Raccolte di questo genere sono già in libreria in vista dei concorsi, a cura dei più pronti di riflessi (che sono talvolta tra i migliori di noi, ma anche tra i più delusi e tra i meno capaci di sperare in ragionevoli correzioni).

Tutto questo non è contrastabile adoperando criteri «quantitativi»: nulla può sostituire la onesta valutazione dei pari, nel merito di ciascun «prodotto». Come nulla può sostituire la visibilità di una tale valutazione, essa stessa assoggettata al controllo della comunità scientifica: una accountability che il sistema universitario ha avuto solo nelle proprie migliori stagioni, e che ha purtroppo da qualche tempo smarrito. In tale scenario, la considerazione del numero dei prodotti può avere un senso, ma solo come un elemento tra altri, e marginale. Forse l’esperienza del Civr aveva dato qualche indicazione utile; ma poi questa modalità è divenuta il Neanderthal nell’evoluzione della specie Valutazione, finendo misteriosamente su un binario morto.

Dunque correggere il metodo è necessario ed è divenuto davvero urgente.

Quanto all’urgenza, si consideri che il sistema di valutazione, segnato da tanti e rilevanti punti oscuri, farà da sfondo a un meccanismo concorsuale a sua volta assai discutibile.

Si discorre di «concorsi nazionali». In realtà ci si appresta a formulare graduatorie «aperte» di idonei: non v’è un numero limitato di posti per i quali competere; i concorrenti giudicati idonei (sulla base dei criteri di cui si è fatta menzione) da commissioni (formate sulla base di analoghi criteri) potranno poi accedere a procedure comparative nelle singole sedi universitarie. Rovesciando nominalisticamente l’evangelio di Matteo: molti gli eletti, pochi i chiamati. Ma chi sarà chiamato? Saranno chiamati coloro per i quali sarà stato apprestato un budget nel singolo dipartimento di uno specifico ateneo. Come saranno chiamati? Saranno chiamati superando una procedura già definita in termini molto «blandi» dalla maggior parte dei regolamenti adottati in tema dalle singole università. Dunque a decidere i chiamati saranno i rettori (dopo la torsione monocratica del modello della governance universitaria) e i consigli di amministrazione, operando con la leva della distribuzione delle risorse. Non di vero concorso nazionale si tratterebbe, dunque; semmai di concorsi iperlocali. 

 

Che fare allora? Il modello prefigurato è largamente impraticabile. Ma non si possono bloccare ulteriormente le carriere di studiosi in attesa da anni. La determinazione più utile, allora, sarebbe quella di regolare transitoriamente questa fase, tornando alle modalità concorsuali consolidate, con correttivi adeguati a contrastare pratiche deteriori ben note (per esempio, consentendo a ogni commissione locale di attribuire una sola idoneità, corrispondente al posto disponibile, in modo da impedire «incroci» e «scambi» tra commissari e sedi).

Forse occorrerebbe qualche mese. Trascorrerebbe il generale Agosto. Ma tanto maggiori sarebbero il tempo – e la qualità – guadagnati.