Gli avvocati sono troppi. Parola del ministro Paola Severino, che dalle pagine del Corriere della Sera ha annunciato di voler cambiare, d’accordo col ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, il corso di laurea in giurisprudenza. Facoltà «rifugio» per troppi giovani, che la scelgono dopo essere stati bocciati ai test d’ingresso di altre facoltà a numero chiuso. Per molti di loro fare l’avvocato sarà un ripiego. Una situazione non più accettabile, per il ministro: «è auspicabile un percorso universitario diviso in due fasi: un triennio uguale per tutti e un biennio di specializzazione in cui si aprono in alternativa le strade dell’avvocatura, del notariato, della magistratura». Il commento di Paolo Tosoni, avvocato del foro di Milano e presidente della Laf, Libera associazione forense.
Avvocato, come giudica il proposito del ministro?
L’iniziativa del ministro è positiva perché parte da una premessa corretta: l’avvocatura in Italia è in una situazione di decadenza, con gravi conseguenze per il buon andamento non solo della giustizia in generale ma anche di quello dell’economia e della società. Il ministro ha individuato nel momento della selezione iniziale e poi della formazione il nucleo sul quale intervenire e questo è assolutamente condivisibile.
Perché in Italia gli avvocati sono troppi?
Perché abbiamo accettato un sistema basato sulla non selezione, sulla non attenzione all’accesso al titolo. Il cuore del problema, come ha ben visto il ministro, sta nel fatto che la facoltà di giurisprudenza e l’avvocatura sono scelte dai giovani o dopo aver tentato, con esito negativo, l’accesso ad altre facoltà a numero chiuso, o per non esser riusciti a trovare uno sbocco lavorativo. Risultato: siamo in presenza di un numero esorbitante di avvocati, il mercato è staturo e la professione è dequalificata.
Dunque, la strada maestra è controllare l’accesso.
Certamente. Occorre ricominciare dall’università. Se non facciamo questo, di fatto incentiviamo i giovani, una volta in possesso del titolo, ad arrangiarsi, a mettersi subito in proprio prendendo mandati difensivi senza avere la preparazione per sostenerli. Per di più la liberalizzazione delle tariffe induce un giovane a tirare a campare, offrendo un servizio ai minimi termini dal punto di vista economico e inevitabilmente anche qualitativo.
Il ministro propone di sdoppiare il ciclo di studi secondo la formula 3+2, con triennio unico e biennio professionalizzante (o magistratura, o avvocatura, o notariato). Ma uno studente di oggi, dopo tre anni, è in grado di prendere una decisione del genere?
Questo è certamente un problema. Apprezzo l’iniziativa perché parte da una lettura giusta della situazione della categoria professionale, ma il metodo potrebbe essere discutibile. Noi da tempo sosteniamo una duplice possibilità. O che si introduca il numero chiuso a giurisprudenza, come in altre facoltà, il che creerebbe una selezione iniziale capace di incidere sugli sviluppi futuri. In tal caso il ciclo di studi potrebbe anche rimanere come è ora, con una platea però già selezionata e dunque più qualificata. Questa è una ipotesi.
E l’altra?
Diversamente noi suggeriremmo, più che di fare un biennio già diviso tra magistrati, notai e avvocati – il quale presuppone in un giovane una decisione troppo precoce, senza che questi sappia, di fatto, com’è la professione – un test di ingresso, previ corsi di orientamento al secondo o terzo anno all’indirizzo forense, ma lasciando aperta la strada alle altre opzioni. In questo caso l’accesso all’avvocatura avverrebbe sulla base di una selezione preliminare. Nessun sistema è perfetto, però selezionare si deve, non c’è alternativa.
Torniamo per un attimo all’inflazione della facoltà di legge. Secondo lei oggi esiste un’idea falsata o fuorviante della professione forense?
Sì, è diffusa un’idea della professione che non è fedele alla realtà. Innanzitutto, la nostra università è troppo teorica e nozionistica, e sfavorisce nello studente una idea precisa della professione. In secondo luogo molti studenti hanno una immagine dell’avvocatura e della magistratura che è quella trasmessa dai media: il superprocuratore della Repubblica che diventa protagonista della società e della politica nazionale, o dell’avvocato famoso che affronta casi eclatanti. Il primo caso non è un bene né per la società né per la giustizia, il secondo nasconde il fatto che accanto ad un avvocato famoso ce ne sono diecimila che fanno un lavoro di routine.
Esiste da tempo la questione dell’insegnamento del diritto nelle scuole superiori. Una rivalutazione del diritto come materia di studio, là dove non c’è e dove tuttavia studiano i candidati naturali al corso di studi in giurisprudenza, potrebbe agevolare la scelta?
Potrebbe sicuramente giovare. D’altra parte non ritengo sbagliato quello che avveniva un tempo, quando a chi non faceva il liceo era precluso l’accesso a determinate facoltà. Per affrontare certi studi e certe professioni, a mio modesto avviso, occorre una preparazione culturale di base che dovrebbe essere in assoluto quella del liceo classico o del liceo scientifico. Accedere a giurisprudenza da una formazione di tipo professionale, senza nulla togliere al valore di quest’ultima, la ritengo una scelta sbagliata, che per questo andrebbe rivista. Se così fosse, introdurre nei licei il diritto magari non in modo obbligatorio ma facoltativo potrebbe essere d’aiuto.
Prima lei è stato polemico con la liberalizzazione dell’avvocatura. Perché?
Da qualche anno si continua a sostenere che la liberalizzazione delle professioni sia un valore aggiunto per l’economia del Paese. Naturalmente qui posso parlare solo per l’avvocatura. Ebbene, penso che questo sia un grande abbaglio e che invece sia vero il contrario, perché il numero di avvocati in circolazione è già una liberalizzazione di fatto, la quale penalizza proprio i giovani. Viceversa riqualificare e regolamentare bene l’avvocatura, come ha proposto il ministro, aiuterebbe i giovani e la giustizia ad andare meglio e nel lungo periodo farebbe sentire i suoi effetti virtuosi anche sull’economia.