Un anno fa, inizi del mese di agosto, il governo Berlusconi ricevette dall’Unione europea una lettera-penultimatum, nella quale 39 domande chiedevano risposte immediate. Di queste, la n. 13 (“Quali saranno le caratteristiche del programma di risanamento per le singole scuole con risultati insoddisfacenti nei test Invalsi?”) e la n. 14 (“Come il governo intende valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivi il governo intende mettere in opera?”) riguardavano specificamente la scuola. Tenute al coperto per mesi, sono venute “in chiaro” quando sono rimbalzate, nel novembre 2011, sul tavolo di Francesco Profumo.



Finora a nessuna delle due è stata data una risposta. Sia le nuove proposte quali “la scuola in chiaro”, “la Fondazione per il merito” con premi eventuali per i migliori sia l’implementazione di percorsi già predeterminati dal ministro precedente non riescono a cancellare la netta e fastidiosa impressione che la scuola sia la cenerentola delle politiche del governo Monti. Mentre la “visione” e le politiche economico-finanziarie – quale che sia il giudizio di merito che si debba dare – hanno “costretto” i partiti a piegarsi, obtorto collo, di fronte al baratro che si stava spalancando sotto i piedi del Paese, per quanto riguarda la scuola il ministro non ha prodotto né visione né politiche. Si potrebbe osservare che, nella previsione di un solo anno di attività, anche le politiche si sono consapevolmente ristrette all’orizzonte temporale limitato. In più, alla fine sono i partiti che in Parlamento detengono il diritto di dire l’ultima parola e il potere di veto. A maggior ragione, però, ci si sarebbe aspettati almeno una visione larga della politica scolastica, che si collegasse ai più estesi orizzonti delle politiche economico-finanziarie. È infatti impossibile che un Paese cresca, se il suo sistema educativo “decresce”. Toccava al ministro indicare le prospettive di innovazione radicale e di riforme del sistema, sulle quali tutte le forze in gioco nella scuola, nella società e nel Parlamento si sarebbero eventualmente schierate. Il ministro ha fatto annunci banali e praticato politiche in perfetta continuità con quello precedente, prigioniero dell’apparato amministrativo e dei sindacati. Tutta colpa di Profumo? In realtà, il sistema educativo è una parte del sistema-Paese e la sua condizione è la metafora di quella dell’intero sistema-Paese.



Un’analisi sommaria, ma sufficiente, delle politiche dei partiti maggiori – quelli che sostengono il governo Monti – mostra, in primo luogo, che il destino del sistema educativo non è affatto il primo nell’agenda. La politica guarda altrove. In ogni partito esistono sì sensibilità e persone “specializzate” e appassionate, ma sono relegate ai margini dell’elaborazione delle policies. La realtà è che il sistema piace così com’è. Eccetto che ai ragazzi, si intende. La politica si giustifica con la filosofia del consenso. Non si può cambiare, perché all’opinione pubblica, alle famiglie, agli insegnanti lo stato di cose presente appare il migliore possibile. E, si sa, in democrazia, il popolo ha sempre ragione. I partiti altro non possono fare che fungere da spugna passiva del consenso.



Benchè questa autodifesa dei partiti suoni largamente opportunistica, l’alibi ha tuttavia un fondamento solido. Infine, la politica democratica rispecchia il Paese che c’è, con la sua scuola che c’è. Come il sistema-Paese, anche quello educativo sembra imprigionato in un circolo vizioso conservatore, che la politica non può tentare di spezzare dall’alto, pena il suo costituirsi in avanguardia giacobina autoritaria. La politica non può risolvere nessun problema che la società civile e gli elettori non vogliano affrontare. 

La domanda insorgente pertanto è: chi è il soggetto che può spezzare il cattivo incantesimo? Io credo che il soggetto principale sia quello degli insegnanti, per due ragioni: perché il cambiamento e miglioramento del sistema significherebbe per loro un miglioramento netto della loro condizione professionale; perché sono una massa enorme di circa un milione di persone. L’affermazione appare, a sua volta, assai contestabile e di dubbio fondamento. Le ricerche e l’esperienza quotidiana dimostrano che gli insegnanti disposti a mettersi in gioco sono una minoranza, che oscilla tra il 20% e il 30%, insomma 2-300mila. In mezzo sta una massa molle e oscillante, all’altro estremo un 20% di assenteisti sistematici, di persone in burn-out, di demotivati assoluti, di impreparati. Tuttavia, complessivamente l’universo docente è un universo spoliticizzato e deculturato, la cui professione è configurata inesorabilmente dal sistema amministrativo, collocata in un limbo a debita distanza dalla società civile e dalla politica. 

L’insegnante medio non esprime un’autocoscienza storico-politica e civile della propria professione. Paradossalmente, una coscienza accentuata della propria vocazione non porta per nulla ad una maggior presa di coscienza del contesto storico-politico, al contrario finisce per rinchiudere in un Ego pedagogico-didattico soddisfatto di sé. Con un’avvertenza: qui la parola “politica” non significa per nulla “partito”. Indica la dimensione pubblica dell’agire umano e professionale, lo stare-nel-mondo e nel sistema educativo e scolastico. Assunta a livello consapevole, essa implica una conoscenza della storia dell’istituzione scolastica, del suo sistema amministrativo, della sua ideologia fondante. Implica la messa in discussione pratica del modello ormai trisecolare, che si sta consumando sotto la spinta massiccia della terza rivoluzione industriale.

Solo quella consapevolezza può produrre un’azione pubblica di cambiamento. Essa è la forza motrice dell’innovazione. La chiusura nel “particulare” degli interessi o dei valori – la professione come missione eroica –, l’abbarbicarsi alla propria cattedra può forse salvare l’anima propria, ma lascia andare il sistema alla deriva. La realtà totale della scuola non è riducibile alla sola relazione pedagogico-didattica con gli alunni; essa è fatta di relazioni con i colleghi, con le famiglie, con la comunità locale, con il sistema amministrativo. Non è certo un caso che le tavole delle competenze-chiave europee e statunitensi comprendano le conoscenze e le esperienze dell’intero contesto quali pre-condizioni essenziali per l’esercizio della professione. Il versetto dell’antifona “la politica partitica non ci salverà” deve essere completato da un altro versetto: “la politica fatta da tutti e ciascuno ci salverà”. Non si può pensare che la somma meccanica degli interessi/valori/passioni dei singoli Io producano automaticamente il Bene comune del Paese e/o del sistema educativo nazionale. Solo l’Io ci salverà, a condizione che sia largo.

 

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