L’articolo di Giuseppe Botturi comparso il 21 luglio sul sussidiario intitolato Il latino e il greco? Non cadiamo nella “trappola” dello zoo presenta due dati interessanti: da un lato fornisce un’ulteriore conferma di una tendenza generale a rendere opzionale una disciplina umanistica come il latino, dall’altra attesta il riconoscimento sociale che questa materia ha ancora in Svizzera. L’ingenuità dei ragazzi che dichiarano “mi hanno detto che il latino è necessario” per diventare medico, avvocato, ecc. non ha altro significato.
Vorrei sviluppare alcune riflessioni su questi due punti: innanzitutto il latino divenuto materia opzionale. Sappiamo che la tendenza interessa per lo meno l’Europa. A titolo di esempio si può riferire quanto sta succedendo in Francia. In un articolo comparso sull’Avvenire del 10 giugno 2012 si documenta che Oltralpe la lingua dell’antica Roma e della tradizione scientifica e letteraria occidentale si sta sempre più allontanando dal curriculum scolastico ed è scomparsa “dall’iter universitario di lettere moderne”. Per questo molti intellettuali e personalità di prestigio francesi hanno pubblicato su Le Monde un appello chiedendo che il latino diventi obbligatorio negli studi letterari europei.
Allargare lo sguardo e la prospettiva può aiutare a comprendere il fenomeno che in realtà non interessa solo il latino ma in generale le materie umanistiche.
La studiosa americana Martha Nussbaum nel suo saggio Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (il Mulino, 2011) si occupa proprio di questo. Il primo capitolo, dal titolo emblematico, “La crisi silenziosa”, comincia così: “ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008. […] Mi riferisco invece ad una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione. […] le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo. Quali sono questi cambiamenti radicali? Gli studi umanistici ed artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. […] i governi preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico scientifici più idonei a tale scopo”.
Le considerazioni della Nussbaum da un lato confermano la propensione all’emarginazione degli studi umanistici (lo “zoo” di cui scrive Botturi), dall’altro sottolineano la pericolosità di questo orientamento addirittura per la sopravvivenza della democrazia. Sono esagerate le riflessioni della Nussbaum? Per la studiosa c’è un legame indissolubile tra tradizione umanistica − che favorisce il vaglio critico di ogni aspetto della realtà − e democrazia. Se la sua analisi è corretta, non si tratterebbe di essere tradizionalisti o di difendere il proprio recinto di interessi culturali di nicchia, ma al contrario promuovere la cultura umanistica equivarrebbe a dare un contributo indispensabile alla società perché si possa mantenere la democrazia.
Forse i toni della Nussbaum sono talvolta un po’ troppo apocalittici, ma mi sembra interessante segnalare la linea di tendenza nella visione degli studi da lei segnalata.
A mio avviso però il discorso va ampliato con un’ulteriore considerazione: il confinamento programmato degli studi umanistici può risultare accettabile all’opinione comune perché è diminuito il riconoscimento sociale legato a tali discipline; ed il latino in questo è probabilmente solo il primo bersaglio. Per spiegare che cosa intendo faccio un esempio che riguarda l’Inghilterra del XIX secolo. Come ha riferito il prof. Milanese recentemente in un interessante convegno intitolato “le buone pratiche della scuola lombarda nel contesto delle discipline classiche e umanistiche” tenutosi il 21 maggio al Pirellone e organizzato dall’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, il latino nell’Inghilterra dell’Ottocento aveva una grandissimo prestigio in quanto aveva il ruolo di “ascensore sociale”. Per diventare governatore o funzionario nelle colonie di Sua Maestà occorreva superare la prova di composizione latina e tutti quelli che volevano diventare “qualcuno” (e non erano di per sé nobili) studiavano questa lingua. Lo studio del latino era fiorente ed ritenuta scontata la sua importanza: anche se non legato necessariamente al riconoscimento del valore intrinseco della disciplina, aveva insomma un indiscusso prestigio sociale e ritengo che non fosse nemmeno immaginabile un confinamento del latino e delle materie umanistiche, tale era la loro considerazione generale.
Anche oggi e particolarmente in Italia si ha la stessa percezione dell’importanza del latino e della cultura umanistica in generale? Ho qualche dubbio in proposito. Per limitarmi alla mia esperienza personale, mi pare di scorgere due differenti atteggiamenti.
Quando ho occasione di parlare con qualche manager d’azienda mi sembra che ancora la cultura umanistica venga ritenuta un valore. Nel convegno “le buone pratiche …” sopra ricordato, il dott. Petralia, dirigente dell’Ufficio Scolastico, esortava i docenti di materie classiche ad essere consapevoli di essere formatori della classe dirigente che avrà il compito di far rinascere l’Italia.
Il prestigio mi sembra invece che si sia un po’ indebolito nelle famiglie e negli studenti. L’impressione che ho è che fino a qualche anno fa la considerazione comune delle discipline umanistiche era alta e la scelta liceale, ed in particolare del liceo classico, aveva un indiscusso riconoscimento sociale. Oggi il giudizio sui licei sembra molto mutato: pare che il “vero” liceo sia quello scientifico perché in esso c’è molta matematica (che “serve” sempre); segue, nella considerazione, quello tecnologico, visto come il “vero scientifico”, dato che non prevede il latino, materia che non si capisce cosa c’entri in uno scientifico; chiude la rassegna il classico. Sto un po’ estremizzando, ma confesso che sto riferendo posizioni personalmente e realmente conosciute.
In conclusione. Da un lato sembra profilarsi da parte di chi, nei vari Paesi del mondo, ha la responsabilità di pianificare l’organizzazione dell’istruzione una generale tendenza a marginalizzare le materie umanistiche o, ciò che è peggio, l’approccio umanistico (cioè critico, generale e non utilitaristico) alle discipline. Dall’altro sembra che a questo corrisponda nell’opinione comune una lenta, impercettibile erosione del prestigio, del consenso. Non mancano ovviamente eccezioni, opposizioni in ogni parte del mondo: ma la strada sembra essere segnata.
Avere presente questa situazione “globale” a mio avviso è indispensabile in Italia in questo momento. Tale consapevolezza dovrebbe invitare tutti gli attori dell’educazione e dell’istruzione a fare la loro parte: i governanti a stare attenti a non lasciarsi trascinare quasi senza accorgersene da questa tendenza globale, a non disperdere un grande patrimonio della nostra nazione; noi docenti ad essere consapevoli della grande responsabilità legata al nostro ruolo; i genitori a ripensare alla ricchezza che la tanto vituperata scuola italiana comunque offre; gli studenti a saper cogliere con serietà e soprattutto senso critico il complesso di discipline che la scuola propone, senza sottovalutare quelle umanistiche.
Queste ultime − e specialmente il latino e il greco, ma anche la letteratura, la storia, l’arte − devono riacquistare prestigio generale: sono infatti occasione per diventare meno barbari, più uomini, essendo così “utili” a sé, agli altri, al paese e forse, ci avverte la Nussbaum, anche alla sopravvivenza della democrazia.