L’impatto che suscita la visita della mostra “L’imprevedibile istante”, realizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà al Meeting di Rimini, riguarda il proprio io, il desiderio comunicarsi agli altri, la professione con la quale si esprime la propria vocazione. Una mostra attiva, che mobilita ben oltre la bellezza provocatoria delle sue immagini e delle ingegnose innovazioni tecnologiche.
Mi focalizzo sulla scuola, cioè sulla prima parte della rassegna. Gravita tutta su due punti: la certezza di una proposta educativa presente e la necessità di una sburocratizzazione che coincide con la libertà/liberazione di tutti i soggetti educanti che hanno voce in capitolo. Il contraccolpo è sulla modalità con cui in genere si mettono in fila le cose, dove spesso l’analisi precede il fare (un fare pieno di pretese perché dettato da un progetto e non da una coscienza). La mostra indica un’altra strada: se io mi educo e non rinuncio alla sfida della realtà, allora l’insegnamento cambia e diventa spazio di affezione a me, e attraverso me a ciò che insegno.
Il messaggio è chiaro: “Un’educazione intesa non come indottrinamento o reclutamento di adepti, ma che guardi alla persona nella sua singolarità e grandezza, non può che avere a cuore la crescita dell’io umano in tutte le sue dimensioni e secondo le sue facoltà e attitudini”. L’educazione è prima ed è questa passione per l’umano (il mio anzitutto) che sa trovare la strada della fuoriuscita dal tunnel della scontatezza e dello scetticismo. Questi limiti, in fondo, sono le cause del degrado di tanta parte della nostra scuola attuale, capace di alte vette qualitative (poche ma buone) e di tanti abissi (tra dispersione e abbandoni, un giovane su tre si perde nel nostro sistema scolastico, cioè esce o scompare senza lasciare traccia, ovvero senza avere acquisito un titolo).
Eppure, come la mostra attesta esaurientemente, c’è tra i giovani disponibilità all’ascolto e all’apertura totale al reale. C’è però bisogno di adulti disposti a sfidarli perché loro stessi colti dalla pienezza di cui è segno il brano di realtà che è loro affidato. Colpisce, ancora, la energia carica di motivazioni ideali con cui la mostra cattura proprio la categoria “scuola”, una parola di cui tutti pensano di conoscere il significato, perché fattore così diffuso e onnicomprensivo (talvolta anche troppo) nella vita di un giovane. La mostra non si esime dal lanciare obiettivi pungenti, che chiamano in causa tutti coloro che hanno responsabilità in questo campo: occorre il superamento della disaffezione alla scuola, è scritto nelle “proposte di sussidiarietà”; occorrono autonomia degli istituti scolastici e libertà di scelta delle famiglie; servono reclutamento degli insegnanti e carriere basate sul merito.
Già, gli insegnanti! Trattati dallo Stato a livello giuridico come impiegati eppure al 78 per cento della loro totalità disponibili a riprendere, se dovessero scegliere nuovamente una professione, la strada dell’insegnamento.
“C’è bisogno di una scuola, rilancia la mostra, dove i docenti sappiano aprire al mondo, non dicano cosa si deve fare, ma parlino di qualcosa a cui si possa arrivare, raccontino della nostra tradizione…una scuola dell’imprevedibile istante della conoscenza libera da vincoli che l’ostacolano, senza poterla evitare”. Da qui occorre ripartire.