La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito è, a prima vista, una frase suggestiva ma astratta. Poetica, linkabile, però troppo estiva. Fa venire in mente cieli stellati e mari al tramonto, ma sembra destinata a infrangersi contro gli scogli dell’anno scolastico che ricomincia: l’infinito è troppo grande per accettare di accartocciarsi nelle anguste misure di quattro squallide mura. Del resto, cosa avrà mai a che fare il “rapporto con l’infinito” con le programmazioni, le griglie di valutazione, le competenze, i test d’ingresso a risposta chiusa?
Occorre ammettere che l’idea di “uomo” che avanza e domina nelle scuole viaggia agli antipodi: nei collegi docenti si parla – Dio ce ne scampi! – di “produrre teste ben fatte” (come se l’uomo neanche avesse una natura, ma fosse un prodotto). Non solo: se anche qualche insegnante fosse disposto a credere nell’esistenza della natura, senza fermarsi al carattere, alla psicologia e all’ambiente di provenienza di un ragazzo (“ma se già la mamma è così, ecco perché il figlio poi non studia”), e se anche fosse disposto a uscire dal dogma del ruolo allargando le categorie di “alunno” e “professore” fino a quella di uomo, il problema tutto aperto resterebbe se e quando accade in classe la coscienza di essere rapporto con l’infinito.
Di solito un ragazzo è concepito come rapporto con la classe (se è integrato o no nel gruppo) e, più in generale, con la società (gli offriamo pon, educazioni varie, conferenze, orientamenti, viaggi eccetera); sicuramente come rapporto con il suo futuro (deve studiare in funzione di quello che potrà fare domani: nessuno tocchi la “spendibilità” dei saperi!). Inoltre viene misurato: moltissimi insegnanti sono tanto appassionati da giocarsi la faccia e litigare con i colleghi pur di far ottenere un (magari meritato) 83 anziché 82 alla maturità, un 100 anziché un 98. E fanno benissimo ad accanirsi per un punticino. Solo che a me, una volta, è successo un fatto che si chiama Simona, e che ha reso improvvisamente ridicoli tutti quei parametri.
Prima supplenza, una difficile quinta liceo scientifico del centro di Bari. L’argomento da cui mi tocca iniziare è Leopardi. Leggiamo qualche poesia, qualche operetta, qualche pensiero, e sempre, martellante, questo “compagno inseparabile dell’esistenza” dal nome “desiderio”: desiderio di felicità, desiderio dell’infinito. “L’uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente maggior piacere, perocché egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere infinito” (Zibaldone 4126).
Tutto quello che ci piace non riesce a evitare che insorga un dispiacere che non ci lascia tranquilli, una tensione che “non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito” (Zibaldone 165). Se ne parla in classe, e animatamente. Intervengono in molti, disquisiscono su cosa sia per ciascuno l’infinito, qualcuno prova anche a definirlo e ci vorrebbe in fondo venire a patti. Al secondo banco una ragazza bella e attenta guarda ma non parla (canta divinamente, però all’epoca non lo sapevo), non interviene, anche se ogni volta che leggiamo è evidente che i suoi occhi profondi vengono trapassati dallo stesso desiderio di Leopardi.
Dopo un mese, però, mi ferma all’uscita, in un certo angolo di corso Cavour, e mi dice, in sostanza, che a lei non interessa parlare dell’infinito, non le serve esprimere un’opinione su cosa intendesse Leopardi per infinito: lei vuole l’infinito. E non una briciola di meno. Mi fa anche l’esempio concreto: il sabato precedente, per la prima volta, non è uscita, perché da qualche settimana non vuole accontentarsi di niente che sia meno dell’infinito. Fra tutti i rapporti possibili, si era scelto quello più importante: il rapporto con l’infinito. Anche il rapporto con me veniva bruciato da una domanda drammatica, rispetto a cui mi scoprivo tremendamente inadeguato: Simona entrava in rapporto con qualcosa che era più di me, di Leopardi, della classe, del futuro, della letteratura, del voto. Anzi, con qualcosa che rendeva finalmente interessante il rapporto con me, Leopardi, la classe, il futuro, la letteratura, il voto.
Ecco, io son dovuto rientare in classe dalla successiva mattina di novembre fino agli esami di Stato guardando quegli occhi al secondo banco. Credo che Dio lo abbia fatto apposta, all’inizio della mia storia professionale: per dirmi una volta per tutte, in maniera indimenticabile, che in classe il problema non è diventare all’altezza delle situazioni, ma scoprire qualcosa che è all’altezza della nostra natura. Perché davanti a me ho degli uomini, a cui niente meno dell’infinito può bastare. Sia per vivere sia per fare i compiti.
Infatti insegnare anche una figura retorica è come andare per mare: senza evocare la nostalgia dell’infinito, si polverizzano tutte le pagine, tutti i dettagli. Ha detto bene Saint-Exupéry: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”. Ma non si tratta soltanto degli alunni: io sono questo rapporto con l’infinito. E a me può succedere di non incontrare più per il resto della mia vita nessuna Simona, ma di essere libero, cioè di non dipendere da quanto rispondono i miei alunni. Di dipendere soltanto da qualcosa che mi fa sentire in un’aula come nel mare, di fronte a un alunno sconosciuto e fastidioso come di fronte a mio figlio.
Su questo – lo sappiamo bene – c’è poco da barare: il rapporto con l’infinito, come ogni rapporto, c’è o non c’è. E se non c’è, se è puramente immaginario, crolla al primo soffio di vento, al primo insuccesso: se l’orizzonte effettivo di uno studente è il voto, nessuna esortazione potrà convincerlo che lui non vale un 4 o un 8 ma vale l’infinito, come a non disperarsi per un 72 o a non “vendersi la mamma” pur di strappare un 100 e lode; allo stesso modo, nessun autoconvincimento riesce a farti dire che insegnare è il più bel mestiere del mondo se l’infinito fosse così aleatorio che sulle labbra ti tornano continuamente le lamentele sul precariato, gli stipendi bassi, il ruolo nella società che non è più quello di una volta, i giovani di oggi che non ne vogliono sapere e la voglia che arrivi presto il sabato.
“A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete”, scrive Dante nel XVI del Purgatorio: siamo “liberi” perché dipendiamo (”soggiacete”) soltanto da una “natura” più grande della nostra: così è fatta la nostra “anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volontier torna a ciò che la trastulla”. In questa settimana riminese è una letizia inimmaginabile che si legge negli occhi dell’imprenditore che si mette a fare il cameriere e dell’universitario che si gioca le vacanze per stare ai parcheggi: è la semplicità di chi non sa bene come, ma riflette nei suoi passi la letizia di Chi è tanto “lieto” da crearlo in questo istante.
Dal titolo – e dall’evento – del Meeting mi aspetto di imparare come tornare in classe, cioè come succede che stare in un’aula abbia un respiro immenso, di passione commossa e tremante per i miei alunni e per me stesso, come sia possibile iniziare – dentro il lavoro solito – a godercela: come un’estate che non finisce, come una frase che si sporge oltre le parole, e non ti fa vedere l’ora che torni l’inverno, e ogni lunedì di ogni inizio, e ogni martedì e mercoledì ordinari: come l’infinito che vuole gridare che proprio non ce la fa a finire sull’uscio di una porta.