Un recente articolo pubblicato negli Stati Uniti sulla rivista The Atlantic e ripreso in forma sintetica anche su molti nostri quotidiani ha richiamato l’attenzione su un problema che alcuni anni fa era stato evidenziato in rapporto alle scelte operate da alcuni grandi manager di sesso maschile, i quali avevano abbandonato il lavoro per seguire più da vicino i figli. L’attenzione dei media era giustificata dal fatto che la rinuncia al lavoro a favore della famiglia era sempre stata una scelta scontata per le donne: risultava quindi innaturale che fossero degli uomini a preferire la famiglia.
L’articolo citato è di una docente dell’Università di Princeton che in passato ha fatto anche parte dello staff di Hillary Clinton, Anne Marie Slaughter. Il titolo è estremamente significativo: Why women still can’t have it all (Perché le donne non possono ancora avere tutto).
Le tesi esposte in tale articolo sono l’esatto opposto di quelle propugnate tradizionalmente dal femminismo: non necessariamente le donne devono fare carriera velocemente come gli uomini e non devono essere valutate negativamente se hanno anche una famiglia e una vita familiare attiva. L’autrice evidenzia come in proposito esista un significativa differenza generazionale: mentre per chi oggi ha più di cinquant’anni la scelta tra lavoro e famiglia era in realtà obbligata, oggi la scelta è frutto di una decisione consapevole della donna. Ciò non esclude però che, contrariamente a quanto accade per gli uomini, quest’ultima “non possa ancora avere tutto”.
Inoltre, mentre in genere si comprende la donna che decide di lasciare il lavoro o di passare a un lavoro meno impegnativo per seguire figli in tenera età, identica comprensione non si manifesta per colei che decide invece che i figli adolescenti necessitino di una sua maggiore presenza e guida.
Infine, risulta quanto meno beffardo che gli stessi politici che predicano il valore della famiglia, chiedano poi ai propri collaboratori ritmi di lavoro che impediscono di occuparsi di essa.
A nostro avviso ciò che risulta strano (e che forse nell’articolo della prof.ssa Slaughter non è stato sufficientemente posso in rilievo) è che nessuno si è mai davvero chiesto perché il lavoro debba necessariamente essere ritenuto superiore ai figli. Certamente, il lavoro conferisce alle donne l’indipendenza economica, ma i quotidiani fatti di cronaca evidenziano come essa non sia sufficiente a ottenere una reale parità con gli uomini: paradossalmente, talvolta sembra anzi che proprio tale indipendenza scateni forme di violenza particolarmente gravi.
Soprattutto, nessuno finora si è mai posto dal punto di vista dei bambini: è davvero preferibile che la mamma trascorra la maggior parte del tempo sul posto di lavoro invece di stare con loro? È davvero solo una questione di “qualità” o non esiste anche un problema di “quantità” di tempo?
In un bellissimo libro dal titolo Il bambino della notte (ancora in larga parte attuale anche se scritto nel 1995), la psicanalista Silvia Vegetti Finzi evidenziava come il bambino si trovi nei confronti della mamma in una situazione di completa e assoluta dipendenza, addirittura in termini di sopravvivenza fisica. Nessun altro legame interpersonale raggiungerà mai lo stesso livello di intensità, nemmeno in condizioni estreme, quali ad esempio quelle di un lager. Un interessante esperimento effettuato negli anni Cinquanta dal dottor Harlow su piccoli di scimmia ha evidenziato come venga preferita la mamma morbida, calda, accogliente anziché la mamma che si limita a fornire nutrimento. Le osservazioni effettuate in passato nelle strutture che accoglievano i neonati abbandonati permettevano di riscontrare come nei primi mesi di vita il nutrimento e le cure materiali non fossero sufficienti a far sviluppare un bambino e come il prolungamento di tale condizione per parecchi mesi provocasse danni spesso irreversibili in termini di sviluppo.
Esistono evidenze scientifiche indiscutibili del fatto che fin dal momento della nascita la relazione con la madre sia a fondamento di tutto lo sviluppo successivo e che quegli scambi linguistici a volte apparentemente senza senso che intercorrono tra la mamma e il neonato durante le poppate o il cambio del pannolino siano fondamentali per lo sviluppo del linguaggio nel primo anno di vita e, di conseguenza, per lo sviluppo cognitivo. Il rapporto con la mamma non influenza quindi solo lo sviluppo emotivo e affettivo.
In un altro libro ancora più affascinante, che al rigore scientifico unisce uno stile di vera e propria poesia (Lo scienziato nella culla, tradotto purtroppo in italiano in Tuo figlio è un genio), tre dei maggiori psicologi dello sviluppo americani scrivono che la mente dei bambini piccoli è in assoluto il computer più potente, più meraviglioso che esista al mondo. Ma il sistema computazionale di un neonato è una rete connessa dal linguaggio e dall’amore, non dalle fibre ottiche. La mamma, di conseguenza, è il miglior sistema tecnologico di supporto esistente al mondo, perché progettata in modo da avere comportamenti che permettono al bambino di apprendere in un clima positivo, di sopravvalutazione delle capacità e non di svalutazione e sottolineatura degli errori.
È pur vero però che non tutti i bambini dispongono di una mamma e di una famiglia capaci di comportarsi in questo modo. Si rendono quindi necessarie strutture per la prima infanzia che soccorrano la famiglia in caso di situazioni negative e possano offrire ai bambini le condizioni necessarie a uno sviluppo positivo. In campo economico è ormai un assunto universalmente accettato che gli investimenti sulla prima infanzia siano quelli che danno un maggiore ritorno, molto più elevato degli investimenti a livello scolastico.
Le politiche per l’infanzia stanno perciò subendo mutamenti significativi, anche se non possono ancora essere considerate pienamente soddisfacenti.
L’Unione europea, in particolare, ha elaborato un progetto denominato ECEC (Early Childhood Education and Care), finalizzato a “consentire a tutti i bambini di affacciarsi al mondo di domani nelle condizioni migliori” e fondato sul presupposto secondo cui gli interventi e gli investimenti sui bambini piccoli sono a fondamento dell’apprendimento per tutta la vita, dell’integrazione sociale, dello sviluppo personale e della possibilità di trovare lavoro, aumentano l’equità in termini di risultati scolastici e riducono le spese per l’assistenza sociale, la salute e la giustizia. I Paesi membri sono quindi invitati a predisporre politiche finalizzate a creare strutture di qualità per la prima infanzia.
Indubbiamente il progetto risponde alla necessità di assicurare indistintamente a tutti i bambini quel benessere e quello stato di salute che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi comprende non più soltanto le cure materiali ma anche la possibilità di apprendere per tutta la vita. Creare strutture per la prima infanzia che assicurino tali condizioni significa far fronte alle conseguenze negative che la povertà e il disagio familiare hanno sullo sviluppo del bambino.
Tra le conseguenze positive di tali scelte, nei documenti dell’Unione europea si richiamano anche l’aumento della mobilità dei lavoratori e una maggiore possibilità di accesso delle donne al lavoro.
Sicuramente si tratta di aspetti che soddisfano le richieste formulate in passato dal femminismo, per il quale (giustamente) l’emancipazione della donna richiedeva necessariamente uguali opportunità lavorative rispetto agli uomini. Sicuramente sono soddisfatte le esigenze della società economica, che necessita di un numero di lavoratori attivi elevato per far fronte alle spese sociali. Sicuramente interventi di qualità sulla prima infanzia aumentano l’equità e quindi riducono lo svantaggio esistente tra bambini appartenenti alle cosiddette “fasce deboli” e bambini nati in famiglie di status socio-economico elevato.
Ci si chiede però se ci si possa limitare a offrire alle donne strutture che, in un certo senso, le “sostituiscano” efficacemente nella fase iniziale della vita del bambino o se, al contrario, non sarebbe più opportuno prevedere misure che invece consentano alla madre, pur senza arrivare a un rapporto totalizzante, di seguire veramente da vicino lo sviluppo del suo bambino nei primi anni di vita senza che ciò comporti penalizzazioni in termini di carriera lavorativa.
In proposito la legislazione italiana in termini di tutela della maternità e della paternità è senza dubbio tra le più avanzate, ma copre adeguatamente solo i primissimi mesi di vita. Inoltre è noto che esistono forti differenze tra le madri che sono lavoratrici dipendenti con contratti di lavoro stabili e madri che sono lavoratrici autonome o che hanno contratti precari. Altrettanto noto è che per i primi tre anni di vita le strutture pubbliche (i nidi infantili) non coprono assolutamente le esigenze delle famiglie, così come non sono sufficienti le Sezioni primavera, che accolgono bambini dai due ai tre anni ma che sono nate come forma di sperimentazione e continuano ad avere questa connotazione, con conseguenze negative ad esempio sulla stabilità del personale e, spesso, sulla stessa sopravvivenza della sezione.
Monitoraggi effettuati nella Regione Piemonte sulle Sezioni Primavera hanno ad esempio evidenziato che la quasi totalità dei bambini vi trascorre 10 ore al giorno per cinque giorni alla settimana. Pur essendo la qualità delle operatrici e delle strutture ottime, siamo davvero sicuri che questa sia la condizione ottimale per i bambini?
Il pediatra americano Brazelton, nell’introduzione al suo libro I bisogni irrinunciabili dei bambini, scrive che un numero elevato di bambini fin dalla più tenera età vive una sorta di “cura istituzionale” che non è esattamente quella che può offrire una famiglia adeguata e che tale esperienza presenta, come unico aspetto positivo, il fatto che quando quegli stessi bambini, diventati anziani, fruiranno di forme analoghe di cura istituzionali nelle case riposo, proveranno la sensazione di avere già vissuto quella situazione. Davvero sconsolante!
D’altra parte oggi non si può più pensare che sia sufficiente lasciare i bambini piccoli con le mamme per avere le situazioni ottimali. Le politiche per la prima infanzia, accanto alla legittima e giusta preoccupazione per la creazione di strutture di qualità, dovrebbero pertanto preoccuparsi di formare e informare i genitori sul modo in cui promuovere lo sviluppo dei figli: perché nonostante molte persone continuino a non esserne convinte, genitori non si nasce ma si diventa.