È ufficiale: il concorso per assumere i docenti sarà bandito il 24 settembre. È presto per fare una valutazione, ma in compenso il momento è quello giusto per formulare qualche auspicio. Il primo è che questo sia l’ultimo concorso svolto con le attuali modalità. Ce lo siamo ripetuti molte volte: non ha senso valutare le competenze disciplinari di persone che le hanno già certificate almeno tre volte: quando si sono laureate, quando si sono abilitate e nel training on the job degli anni di insegnamento precario.



Ora si passi dalle parole ai fatti. Si opti definitivamente per la separazione tra il momento in cui si acquisisce il titolo per poter insegnare (l’abilitazione) e il momento in cui l’aspirante docente viene assunto, un concorso – come vuole la nostra Costituzione – ma rinnovato. Pochi i principi a cui ispirarsi: chi si abilita acquisisce il diritto a partecipare ai concorsi, non ad avere prima o poi un posto di lavoro; il concorso deve avere cadenza biennale; è “vincitore di concorso” chi ottiene la cattedra, non chi vi partecipa e si mette in coda; il concorso sia svolto non più dallo Stato (a livello regionale) ma da reti di scuole, in modo da selezionare chi è in possesso di particolari competenze più corrispondenti alle caratteristiche della scuola che vuole reclutare.



Il ministro sostiene che questo concorso sarà in parte diverso dai precedenti e che verranno valutate anche le capacità di tenere una lezione. È un primo passo, ma non sufficiente. In attesa di un cambiamento più radicale, anche altro si può fare da subito. Si può agire sui titoli che vengono valutati, dando maggiore peso alle skills che si reputano fondamentali nella scuola del XXI° Secolo, quali la competenza certificata nell’insegnamento agli studenti non italofoni e quella nell’utilizzo delle nuove tecnologie, le pubblicazioni, le competenze acquisite in attività lavorative anche non strettamente scolastiche, ovvero il curriculum del candidato. Si dovrebbe invece diminuire il peso dato a corsi e corsetti on line a pagamento che hanno fatto la fortuna di chi ha voluto speculare sulle speranze di centinaia di migliaia di aspiranti docenti.



Su un punto hanno ragione i detrattori: non è possibile cambiare le carte in tavola ad ogni cambio di ministro! Ed ecco quindi il secondo auspicio: si pongano le basi perché chi verrà dopo non ricominci tutto da capo per l’ennesima volta. E la politica da parte sua si impegni a far funzionare meglio i meccanismi in essere piuttosto che a rivoluzionarli.

Vi è poi la questione, posta dal ministro, di come garantire anche ai più giovani di entrare in ruolo. Qui il campo si fa confuso perché alcune anticipazioni sembrano essere incompatibili con l’attuale assetto legislativo. Si afferma infatti al contempo l’impossibilità per i non abilitati di partecipare al concorso, l’indizione solo per materie scientifiche e la volontà di riservare agli Under 30 una quota di posti. Non devono essere molti gli abilitati in queste condizioni.

Alcuni ipotizzano quindi che sarà il concorso preannunciato per il maggio del prossimo anno a contenere delle norme a favore dei più giovani. C’è però chi dubita che quel concorso si faccia realmente: vorrebbe dire passare da un concorso ogni tredici anni a due concorsi in sei mesi, un bel salto!

Ma non è mio costume lasciarmi andare allo scetticismo, dunque mi si consenta un ragionamento molto più elementare: il principio è giusto? Se è giusto, perché rimandare? Il Governo non può appellarsi alla necessità di salvaguardare i più giovani e contemporaneamente rinviare a futuri concorsi l’attuazione di questo principio. Da un lato perché non sarà questo governo a bandire un eventuale concorso di maggio (nella migliore delle ipotesi le Camere verranno sciolte a marzo), dall’altro perché uno strumento per agire da subito ci sarebbe. L’ho scritto nel giugno scorso sempre su queste pagine: si consenta a chi si iscriverà quest’anno ai TFA di partecipare al concorso bandito a settembre; chi tra loro dovesse vincerlo, ottenuta l’abilitazione, potrà entrare in ruolo già dal 2013.

Sembrerebbe semplice, ma purtroppo alcuni mettono in dubbio sia giusto preoccuparsi dei giovani. Sostengono che non ce lo possiamo permettere, dato che prima va risolto il problema del “precariato storico”. Io la penso diversamente per due ordini di motivi. Il primo nucleo di argomentazioni attiene al buon funzionamento di un sistema formativo: i più giovani sono solitamente più motivati, un buon mix entusiasmo-esperienza è fondamentale per far funzionare al meglio una macchina complessa, alcune innovazioni possono essere introdotte più facilmente dalle nuove generazioni, alcune discipline si sono rinnovate profondamente da quando i più anziani hanno iniziato a lavorare e poiché la formazione in servizio è praticamente assente l’arrivo delle nuove leve può consentire l’arricchimento di chi non ha intrapreso (non sempre per propria negligenza) percorsi di aggiornamento.

Ma c’è anche un secondo aspetto, altrettanto importante. La condizione attuale di minorità in cui versano i giovani aspiranti docenti è un’altra manifestazione di quel male italiano di cui si parla da vent’anni e sul quale non si interviene mai. La classe dirigente del nostro paese si è resa colpevole di un delitto perpetuato ai danni di una generazione, quella dei trenta-quarantenni. Lo ha riconosciuto anche Monti parlando di “generazione perduta”. Se questo suo richiamo ha un limite è nella rassegnazione, che da un Presidente del Consiglio non è accettabile. Saranno anche pochi i campi nei quali si può almeno in parte correre ai ripari o per lo meno dare segnali di inversione di rotta, ma in quei campi chi governa ha il dovere di intervenire. La scuola è uno di quei campi.

La legislazione attuale, infatti, ha in sé un meccanismo per dare almeno una possibilità a chi ha meno anzianità di servizio. Essa prevede che quando si procede con le immissioni in ruolo, il 50% dei posti sia assegnato ai vincitori di concorso (di qualsiasi età) e il 50% a chi è davanti nelle Graduatorie ad esaurimento (per forza di cose più anziano). Ovviamente nessuno impedisce di partecipare al concorso a chi è in graduatoria da decenni. Chi tra loro è più indietro in graduatoria avrà semplicemente l’opportunità di entrare in ruolo prima, qualora dovesse svolgere le prove meglio dei colleghi più anziani.

Chiedere di bandire il concorso solo per le graduatorie ormai esaurite è un modo per bypassare questo vincolo senza assumersene pienamente la responsabilità. Sorprende che una tale richiesta – con poche eccezioni – venga proprio da chi si ritiene di sinistra e da chi ha il compito di educare i nostri figli. Invece da chi fa mea culpa per aver lasciato che una generazione fosse sacrificata mi aspetto che quanto meno respinga con perdite quei partiti e sindacati che avanzano una richiesta del genere. Profumo ha in più occasioni difeso il principio del concorso, ma dovrebbe trovare il coraggio di andare fino in fondo e bandire il concorso per tutte le discipline, non solo per quelle con graduatorie ormai esaurite (per lo più materie scientifiche).

Sull’altare della pax sindacale e della tutela di chi è in graduatoria da tempo il Miur ha già sacrificato (ricevendo in cambio solo critiche e annunci di ricorsi) più di 20 mila assunzioni che avverranno pescando esclusivamente dalle graduatorie. Almeno per i 12 mila del concorso si dia una possibilità a tutti, anche ai laureati in lettere e in storia. Non servono quote riservate ai giovani o un’ulteriore riforma delle procedure di assunzione, con annesso pericolo di ricorsi e contro-ricorsi. Se veramente il governo ha a cuore i giovani cominci col non togliere loro le poche opportunità di cui dispongono. Il concorso a cadenza biennale e per tutte le discipline sono tra queste.

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