Si diffondono, nelle Università italiane, i corsi di laurea con insegnamenti in lingua inglese. Li troviamo soprattutto nelle discipline dell’ingegneria, delle scienze matematiche, fisiche e naturali, ma anche dell’economia. I politecnici di Torino e di Milano sono tra le istituzioni più decise a percorrere questa via. Come è ovvio, non tutti sono d’accordo. A Milano, molti docenti del Politecnico della Statale si oppongono pubblicamente, anche con interventi polemici sui quotidiani. Con loro concordano numerosi studiosi di altre discipline. Sul Corriere del 25 luglio è intervenuto Claudio Magris, voce tra le più autorevoli dell’area umanistica. Egli osserva che la lingua madre è fondamentale strumento di comunicazione in ogni campo, non solo in quello letterario. Per questo, a suo avviso, imporre l’uso dell’inglese nei corsi universitari non favorirebbe l’apprendimento dell’inglese, bensì indebolirebbe i corsi medesimi. Per Magris, usando una lingua straniera si  perde in creatività e in ricchezza di pensiero e di espressione.



Magris usa argomenti ragionevoli e presenta un punto di vista nel migliore dei modi. Ma la materia è di quelle su cui si può discutere senza raggiungere “la” risposta. Come tutte le questioni che richiedono l’uso di argomenti favorevoli o contrari a un punto di vista, si può reagire al ragionamento dell’antagonista in tre modi: mantenendo la propria posizione, cambiandola aderendo all’altra posizione oppure abbandonando o sospendendo la contesa rimanendo ciascuno fermo sulle proprie posizioni. 



Per lo più si verifica proprio la terza situazione: si cambia discorso per non mettersi a litigare o si passa a fare altro – per esempio si raggiunge un bar e ci si fa un caffè – oppure ci si accomiata perché si è fatto tardi; raramente si viene alle mani o alle armi.

Fermiamoci, qui, agli argomenti. Forse non tutti i docenti italiani che già facciano lezione in inglese raggiungono i medesimi risultati che avrebbero usando l’italiano. L’impressione è in parte basata su opinioni diffuse; alcuni ritengono che nelle università italiane i corsi in inglese siano obiettivamente più facili; altri affermano che gli studenti non italofoni trovano difficoltà a capire l’inglese dei docenti italiani. Forse occorre prima verificare se gli studenti comprendano davvero l’inglese. È comunque lecito concludere che sia docenti sia studenti, a volte, sono a disagio quando usano tale lingua.



Claudio Magris, nell’articolo citato, rileva come la scarsa capacità degli italiani di parlare altre lingue sia un «non superato deficit della cultura italiana». Egli invita le istituzioni scolastiche e universitarie a creare strutture atte a insegnare realmente le lingue straniere, in particolare l’inglese, ma di questo compito non si possono fare carico i corsi delle diverse materie. Per Magris, non si deve pretendere che un corso di economia o di ingegneria in inglese siano sedi adatte per apprendere la lingua. È un punto di vista condivisibile: studiare materie in lingua non equivale a studiare lingue.

Vale anche l’inverso: sapere l’inglese dell’economia o dell’ingegneria non significa sapere l’economia o l’ingegneria. L’ideale è combinare le due competenze: a un professionista non basta sapere l’inglese utile per esprimere i concetti delle proprie materie. Fuori delle aule e dei laboratori c’è una vita fatta di persone con cui collaborare o competere, ci sono individui che vanno informati o convinti: per riuscire in queste imprese il professionista deve saper parlare anche l’inglese della vita quotidiana; e questo, non glielo insegnano nei corsi delle varie materie.

Peraltro, come è noto, i corsi in inglese servono alle università per “fare punti” nella graduatoria dell’internazionalizzazione. Si ritiene probabile che arrivino più studenti dall’estero se i corsi sono in inglese invece che in italiano. È un argomento plausibile, confortato, sembra, dalle statistiche. Si afferma pure che, sollecitando gli studenti italiani all’uso dell’inglese accademico, si favorirebbe una mentalità più “internazionale” in Italia. Sia consentito qualche dubbio; più probabilmente, si rafforzerebbe una nuova varietà di inglese – l’inglese parlato dagli italiani. Il mondo pullula ormai di varietà di inglese in bocca a individui che non sono anglofoni madrelingua. È lecito dubitare che ciò favorisca una mentalità “globale”; più fondato è ritenere che si ottenga uno sradicamento dalla propria storia.

Ammettiamo comunque che gli studenti abbiano già conoscenze adeguate di “everyday English”. Oltre che a scuola, l’hanno appreso per i fatti loro (con le letture, le canzoni, con la navigazione sul web o con le amicizie). L’uso dell’inglese a lezione ha vantaggi e svantaggi. Dipendono dal mittente, dal destinatario e dal messaggio stesso. Può darsi che un docente non sappia pronunciare bene le parole, ma riesca lo stesso a farsi capire anche da un pubblico non interamente italofono. Nella comunicazione quotidiana si punta a comprendere, non a fare le pulci a chi parla; l’uditorio si adatta subito alla pronuncia del docente e interpreterà nel modo corretto certe strane produzioni foniche, come, per esempio, “manàggement”, che non è proprio una delle varianti prevedibili da un inglese madrelingua (vi è poi il caso di “mènager”, che fa sorridere gli italofoni, per l’accostamento con “menare”, ma non dice molto a chi non sappia l’italiano). Peraltro, non solo docenti italiani hanno difficoltà con l’inglese. Ricordo un insigne cattedratico francese che citava un “seoreticàl problèm” e l’uditorio (internazionale) capiva “theoretical problem”. Le pronunce infelici sono un guaio solo se impediscono la comprensione o generano fraintendimenti nell’uditorio (“three” pronunciato come “tree” o come “free”). Considerazioni analoghe possono valere per la sintassi o per gli intercalari o per altro ancora: va tutto bene, a patto che la comunicazione abbia successo.

Ma che significa “avere successo”? Dipende dal tema, dall’uditorio, dal mittente. Si può certo dire che il linguaggio di una lezione di fisica sia fatto di termini, proposizioni, relazioni fra proposizioni. Ed è un fatto che il contenuto di questi elementi tende a essere chiaro, esplicito e univoco. Appare evidente che si deve trasmettere qualcosa a riguardo di una porzione di realtà in esame – un “qualcosa” che non varia quando mutano gli interagenti: il mittente e il destinatario possono cambiare, il messaggio deve restare costante. Le emozioni suscitate in Tizio dall’esposizione di un teorema non saranno condivise da Caio. Questo non rende insensate quelle emozioni, che anzi fanno della comprensione un’esperienza umana. Piuttosto, quegli stati d’animo non sono parte del contenuto che i termini e le proposizioni della disciplina trasmettono. Lo stesso vale per le emozioni suscitate (deliberatamente oppure no) dal docente. 

Tuttavia, è pur vero che un bravo docente, a lezione, mira a trasmettere all’uditorio anche il proprio interesse e la propria passione per la disciplina. Questo è parte della comunicazione didattica, la quale non si produce per la virtù denotativa del linguaggio “tecnico”, ma per la natura del rapporto interpersonale che fa della trasmissione dei contenuti un’esperienza umana, nella concreta esistenza di ciascun individuo: è allora che la trasmissione del sapere non produce solo un aumento di informazione e non si lascia rappresentare come un semplice scarto fra stati informativi di una macchina che simula il funzionamento della mente umana. Chiarezza e precisione dei contenuti; efficacia e scrupolo nella comunicazione didattica non si lasciano facilmente scindere. 

Vogliamo usare l’inglese? Facciamolo pure. Nihil obstat, purché non si perda di mira il duplice scopo della lezione: far comprendere contenuti e coinvolgere il destinatario nell’avventura della conoscenza scientifica. Nel “coinvolgimento” (ingl. “involvement”) la dimensione emozionale è tutt’uno con quella cognitiva: si comprende per il fatto che si prova interesse e l’interesse aumenta il bisogno di capire. Questo non è uno stato d’animo, ma un processo, un moto del cuore umano che si appassiona alla realtà e tende ad aderire ad essa per coglierne la ragionevolezza profonda che la costituisce. 

Per far questo servono molte cose. Anzitutto, ci vogliono docenti che abbiano a cuore il destino degli studenti e siano capaci di fare lezione. Poi serve una conoscenza dell’inglese adeguata sia alla trasmissione delle nozioni sia alla comunicazione didattica: l’intonazione, la prosodia, il ritmo e la velocità dell’enunciazione hanno qui un compito fondamentale e il docente deve saperne fare uso. Più complesso è l’ambito dei gesti e dei movimenti del corpo (controllati o spontanei): qualcuno dirà che il gesticolare proprio degli italiani non è congruo con un discorso tenuto in qualche varietà di inglese “globale”. Si può ribattere facendo presente che il pubblico riuscirà in qualche modo a interpretare gesti mai visti prima: del resto, gli italiani non gesticolano tutti allo stesso modo; peraltro, si converrà che il docente è tenuto (ingl. “should”) a fare gesti in modo sobrio.

A ben vedere, le esigenze poste dall’insegnamento in inglese si possono far valere anche per l’insegnamento in italiano. Chiarezza, univocità dei contenuti; efficacia della comunicazione didattica sono requisiti ragionevoli di ogni lezione. Nelle aule universitarie, la lingua italiana soffre già per conto suo. L’arrivo dell’inglese non la impoverirà, perché è già impoverita in maniera “drammatica”, come si dice oggi, con un brutto anglicismo.

Ci sarebbe una soluzione davvero bella, cioè rispondente alle pretese di ragionevolezza che la realtà pone. A scuola si apprenda l’inglese dell’uso comune. All’università si insegni pure nell’inglese disciplinare, senza trascurare seminari, dibattiti ecc. in italiano. È importante sviluppare entrambe le due lingue. Ancora più importante, però, è l’apprendimento dell’italiano. In tutti i corsi di laurea, soprattutto nei politecnici, sono assolutamente necessari corsi di lingua, cultura e letteratura italiana per italofoni. Occorre ripensare l’edificio della nostra accademia, inserendo un insegnamento umanistico non solo per ogni anno di corso di laurea, ma anche per dottorandi e persino per docenti. L’esame non dovrà svolgersi in modo convenzionale, ma secondo il metodo dei certami o concorsi a premi, che del resto nacquero proprio per favorire le arti. Coltivare una sensibilità umanistica aiuta il professionista a comprendere il mondo. Introdurre lo studio dell’italiano in ogni corso di laurea è forse l’unico modo per conservare la nostra lingua e la nostra cultura. Accanto all’inglese.