Conclusi i test di accesso al TFA che hanno suscitato polemiche diffuse, a volte motivate, a volte – come sottolinea Max Bruschi nel suo ultimo intervento in rete[i] – frutto della mattanza da social network, mentre il Ministero si prepara a fronteggiare la preannunciata e corposa quantità di ricorsi che pioveranno sugli esiti delle selezioni – in alcuni casi con zero candidati idonei (in alcune sedi nessuno ha superato i test per alcune classi di abilitazione); mentre, ancora, qualcuno si domanda come si posizionino le affermazioni di quattro mesi fa, secondo le quali i test predisposti dal Cineca erano[ii]  “troppo facili” e da rifare (quali i criteri di valutazione? quale l’ampiezza della campionatura? chi ha formulato il giudizio?); mentre, infine, a fronte di tutto questo il Ministero predispone una procedura straordinaria[iii] per far fronte al groviglio di problemi che tutta la vicenda ha generato, poco più di una settimana fa (domenica 29 luglio) veniva presentata in anteprima sulle pagine del Corriere della Sera una interessante ricerca, condotta da uno dei più seri istituti italiani di indagine sulla scuola, dal titolo “Sapere di (non) sapere. I docenti neoassunti giudicano la propria formazione iniziale”.[iv]



Gli esiti della ricerca, condotta dalla Fondazione Agnelli, fanno seriamente riflettere. 32mila docenti neoassunti nelle scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione (materne, elementari, medie e superiori per usare un linguaggio ancora molto diffuso) in 12 regioni italiane hanno risposto alle domande poste dall’ente di ricerca sulla formazione degli insegnanti.



Le risposte (ci si perdoni l’estrema semplificazione; rinviamo, per una più accurata analisi, all’articolo del Corriere di domenica 29 luglio[v] o, meglio, al documento sul sito della Fondazione[vi] – entrambi i link in nota) evidenziano inadeguatezze varie, concentrate sul piano metodologico (non su quello disciplinare), nelle competenze che a giudizio degli intervistati sarebbe stato necessario formare per affrontare con i giusti requisiti l’ingresso in aula.

Quel che colpisce di più i non addetti ai lavori, è che tali inadeguatezze sono percepite (e aggiungiamo in qualche modo verificate, visto che tutti gli intervistati hanno avuto modo di sperimentarle sul campo) in misura decisamente inferiore da coloro che hanno frequentato le Scuole di specializzazione per l’insegnamento (Ssis), sospese, poi chiuse, a partire dal 2008, rispetto a chi si è laureato per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria, nei corsi di Scienze della formazione primaria. Il dato sulle competenze dei formati Ssis coincide con quanto emerge da uno studio condotto fra il 2009 e il 2010 dal Centro Interateneo per la Ricerca Didattica e la Formazione Avanzata di Venezia[vii] e presentato pubblicamente a Bari lo scorso 5 dicembre da Umberto Margiotta nel corso di un convegno sulla professionalità docente organizzato dall’Anfis: la preparazione dei diplomati Ssis è più solida e approfondita sul piano metodologico e dell’efficacia rispetto a chi non abbia sviluppato tale percorso di specializzazione.



Fa riflettere, soprattutto, il fatto che gli insegnanti laureati per la scuola dell’infanzia e primaria, affermino, nella ricerca della Fondazione, di “non credere che il corso di studi scelto abbia dato un valore aggiunto rispetto a una qualsiasi altra laurea”, il che crea un certo sconcerto visto che i quattro anni di quella laurea (saranno cinque con la piena attuazione della riforma introdotta con il D.M. 249/2010), sono tutti di indirizzo professionale.

Di segno differente il dato sulle Ssis. “La decisione di sospendere le Ssis è stata presa senza che ci fosse una valutazione scientifica dei risultati”, afferma dalle pagine del Corriere della Sera il direttore della Fondazione,  Andrea Gavosto, facendo un bilancio complessivo della ricerca. “Ci interessava capire quale fosse la valutazione di chi le ha frequentate (i corsi di Laurea in Scienze della formazione primaria e le Ssis, ndr) e fra i docenti delle superiori non è negativa”.

Parole in linea con i rilievi pubblicati nel volume-documento “Formazione degli insegnanti in Italia: tra passato e futuro”, edito da Liguori a fine 2010[viii], che raccoglie le testimonianze di chi, docenti universitari, docenti della scuola, specializzandi e collaboratori, ha operato nelle scuole di specializzazione. “E ancora, una valutazione positiva sulle Ssis è stata espressa da insegnanti che avevano già l’abilitazione e le hanno frequentate per scelta. Il loro giudizio? «Un imprevisto ma positivo esercizio di formazione in itinere»” (Corriere della Sera, 29.7.2012, p. 16).

Parole pesanti vengono espresse nell’intervista sul lavoro della commissione nominata a luglio 2008 dall’allora Ministro: “Dopo le Ssis la commissione incaricata di riprogettare la formazione ha puntato molto sulla preparazione disciplinare. Peccato che adesso gli insegnanti ci dicano che conoscere la materia non basta, vorrebbero imparare anche ad insegnarla”. 

In verità l’introduzione della relazione finale del gruppo di lavoro, nella sua ultima versione del febbraio 2009, recepiva l’importanza della preparazione metodologica, ma chi ha seguito i lavori di quel gruppo sa bene che era chiara fin dall’inizio l’intenzione di segnare una marcata rottura con l’esperienza precedente e che si puntava con decisione a riqualificare la preparazione disciplinare, individuata quindi come vero punto debole da rafforzare. Valutazioni che, si dice oggi – come qualcuno disse anche allora – furono fatte senza dati obiettivi a disposizione.

Che gli insegnanti intervistati nella ricerca dichiarino in modo consapevole che l’area metodologico-professionale sia la zona d’ombra più critica delle proprie competenze, e quindi della propria formazione, più che una novità costituisce, per chi capisce qualcosa di formazione degli insegnanti e di scuola, una preoccupante conferma.

Chi può mettere in discussione che la preparazione disciplinare deve garantirla il percorso accademico disciplinare? Chi può ignorare il dato emergente dall’indagine nel quale gli insegnanti laureati in Scienze della formazione primaria paragonano quella laurea a una qualsiasi altra laurea? Ce n’è per tutti, da una parte e dall’altra. Ma allora dove sta il problema?

Il risultato della ricerca della Fondazione Agnelli mette a nudo, fra le righe, una criticità centrale in tutto il sistema di formazione degli insegnanti: la qualità dei formatori e degli staff di formazione dei percorsi per l’insegnamento e la necessità di una collaborazione vera fra scuola e università su formazione e ricerca didattica nella scuola.

L’assenza di uno sviluppo professionale degli insegnanti che proietti il docente esperto (al momento non esiste alcun riconoscimento né alcuna norma che regoli la materia) verso l’impiego delle proprie competenze nella ricerca didattica e nella formazione, rende fragile ogni proposta formativa accademica sull’insegnamento.

Il clamoroso dato che l’indagine fa emergere sulla scarsa significatività specifica del corso di laurea in Scienze della formazione primaria, anche se non va preso come oro colato (si tratta pur sempre di una percezione), traccia un solco profondo fra i bisogni formativi avvertiti da chi opera sul campo e quanto si progetta e si realizza all’università, o almeno nella maggior parte delle università appartenenti alla maggior parte delle regioni italiane.

Rari e circoscritti, ma qui servirebbero dati più puntuali, i casi di corsi accademici affidati a insegnanti o ex insegnanti con consistenti percorsi professionali nella scuola. L’anomalia di una categoria che forma a una professione non conosciuta a sufficienza (se non dall’esterno) e che non ha mai, o ha pochissimo, praticato, – è alla radice dell’insoddisfazione circa la qualità della formazione all’insegnamento. Questa fu anche la più forte e diffusa denuncia di inefficienza che gli studenti, specializzandi, lamentarono nelle prime fasi di avvio del percorso Ssis, quando tutti gli insegnamenti di didattica disciplinare e laboratorio furono affidati ad accademici che, anche quando declinavano i corsi verso impostazioni differenti da quelle dei loro corsi nelle lauree disciplinari, mancavano della solidità di argomenti che può mettere in campo chi ha sperimentato, vissuto ed elaborato metodologie, problemi, criticità nella scuola. Ci si passi l’analogia: sarebbe come affidare nella laurea in medicina la formazione alla specializzazione in chirurgia a chi non ha mai preso in mano un bisturi.

Una denuncia che non restò inascoltata dagli stessi docenti e dai coordinatori dei corsi, ma che in alcuni atenei fu del tutto ignorata. Bisogna riconoscere il merito ai numerosi accademici che avevano capito come da una reale collaborazione fra scuola e università potessero nascere qualità della formazione all’insegnamento e nuovi spunti di ricerca. Un’alleanza fra ricerca nella didattica e sperimentazione, orientata alla costruzione di modelli efficaci, in grado di funzionare solo se i due soggetti, scuola e università, trovano un modello di relazione efficace. Un modello che nelle Ssis si andava faticosamente, ma progressivamente, ricercando e sperimentando, e che, nei casi più virtuosi, aveva creato valore e qualità.

Non è più possibile rinviare una discussione seria e aperta sul  problema costituito, insieme, dalla qualità della formazione dei formatori degli insegnanti e dal nodo dello sviluppo professionale degli insegnanti nella didattica, se si vuole nello stesso tempo rendere efficaci i percorsi di formazione e motivare il lavoro degli insegnanti che vogliono investire nelle loro competenze.

Per fare questo l’università deve abbandonare una troppo spesso rilevata autoreferenzialità nel campo della didattica scolastica, mettendosi finalmente, ce n’è l’occasione in questi mesi con l’applicazione del D.M. 249/2010, su un piano paritario e dialogico con la scuola, con i suoi insegnanti, con i suoi dirigenti scolastici. Purtroppo i segnali, dopo la chiusura delle Ssis, vanno in direzione opposta: interrotte le collaborazioni faticosamente e lentamente attivate nei dieci anni (2000-2009) delle scuole di specializzazione, l’università sembra ritornata, salvo le eccezioni portate avanti da chi non ha dimenticato il valore di quell’esperienza, a lavorare da sola. Rarissime e circoscritte sono state le occasioni di coinvolgimento di insegnanti e dirigenti della scuola nell’affrontare il problema di come mettere in pista i TFA, nonostante l’offerta di disponibilità che molti docenti della scuola hanno esplicitamente offerto agli atenei.

Segnali forti sarebbero a nostro parere necessari da parte di organismi rappresentativi del mondo della scuola (associazioni e sindacati) e di università. I bandi di affidamento degli insegnamenti di laboratorio e didattica nei TFA e i criteri che valuteranno le competenze cui dare più valore per gli affidamenti, potrebbero rappresentare una prima occasione, un segnale nella direzione della qualità dei formatori e della formazione iniziale degli insegnanti, ma certamente non sufficiente per la complessa e intricata materia dello sviluppo professionale dei docenti e della collaborazione fra scuola e università nella ricerca e nella formazione applicate alla scuola.

La politica ha atteso troppo, nelle discussioni e nelle decisioni. Da parte di tutti si deve porre maggiore attenzione a quanto scrive in apertura la relazione con cui la Fondazione Agnelli presenta i suoi recenti dati, quasi un grido che ormai da tempo in molti rivolgiamo alla comunità scientifica e politica: “I risultati di apprendimento degli studenti dipendono dalla qualità dell’insegnamento, che a sua volta dipende in modo significativo dalla formazione iniziale e da quella in itinere dei docenti. I percorsi di formazione iniziale e l’offerta della formazione in itinere hanno un’importanza strategica all’interno dei sistemi educativi”.

Se da queste letture non si è capaci di comprendere che la scelta dei formatori e gli investimenti in questo campo sono il nodo cruciale della filiera, significa che non si vuole risolvere un problema che, più passa il tempo, più espone qualunque politica orientata al miglioramento della scuola al rischio di infrangersi contro la mancanza di strumenti adeguati ad affrontare le notevoli complessità della scuola e contro la crescente demotivazione dei docenti.

Leggi anche

SCUOLA/ Tfa, perché il Miur obbedisce alle università telematiche?SCUOLA/ Tfa, caos in arrivo: ecco chi ha sbagliatoSCUOLA/ Immissioni in ruolo, evviva il concorso-beffa (e i sindacati stanno zitti)