Portare i bambini alle diverse discipline, o invece, tutt’al contrario, portare le discipline ai bambini? Chi definisce programmi o indicazioni per la scuola primaria, ma poi anche chi vi insegna, si trova – lo voglia o no, ne sia o no consapevole – a operare una scelta radicale fra queste due opzioni; che sono frontalmente contrapposte. Questa la tesi che avevo cercato di proporre in un mio precedente intervento, con riferimento all’insegnamento della storia e alla bozza di nuove Indicazioni per il primo ciclo. Sul tema si è sviluppato un confronto vivo e significativo. Anche per questo accolgo con gratitudine l’invito degli  amici della redazione ad ampliare e approfondire il discorso che avevo avviato.



Si tratta, dicevo, di scegliere. Si possono assumere come parametri l’epistemologia, i criteri, i metodi, le competenze, i modi di ragionare propri dei diversi ambiti disciplinari, oltre che naturalmente i loro contenuti conoscitivi, e porsi la finalità di condurre i bambini ad accostarvisi e ad addentrarvisi, per quanto possibile naturalmente, e con la necessaria gradualità. E’ questo, come ben si sa,  il criterio che in amplissima misura prevale in programmi e indicazioni e, teoricamente almeno (in pratica, la realtà è assai più modesta, o magari miserevole) nei libri di testo per le elementari. O, all’opposto, si può muovere dalla consapevolezza che  le discipline così intese sono fondate su un pensiero di adulti e da adulti, mentre il pensiero dei bambini è per aspetti essenziali diverso da quello adulto. E porsi allora l’obiettivo di proporre le discipline stesse in modi e con approcci tali che i bambini possano pensarle con il loro proprio specifico pensiero. Insomma, appunto, di portarle ai bambini. 



Riprendiamo il caso della storia, per tanti versi esemplare. Davvero esiste una differenza sostanziale, di qualità, fra il modo adulto di pensarla e quello che può essere proprio dei bambini? Per discuterne, può essere il caso di prendere le mosse da un motivo cardine del pensiero storico e sulla storia, un’idea  che fa parte  solidamente anche del sentire comune. E che si ritrova in effetti un po’ in tutti i programmi e le indicazioni di storia via via succedutisi nel tempo per tutti i gradi di scuola, spesso proposto come fondamento quasi dell’insegnamento della disciplina. Mi riferisco all’idea, e a al sentimento, che conoscere il passato è essenziale per capire il presente. E’ questa di solito la prima e fondamentale risposta che si dà alla domanda su quali siano la ragione, il senso, l’utilità di occuparsi di storia, e di insegnarla e di apprenderla. In definitiva  è poi questo il presupposto in base al quale, su un altro piano, quello della teoria della storia, si suole dire che lo storico legge il passato alla luce del presente per poter così leggere il presente alla luce del passato; e che così, giusta la lezione crociana, ogni storia è storia contemporanea…. E via proseguendo.



Si tratta, come ciascuno intende, di una nozione  in qualche modo evidente in se stessa, perché risponde  a una consapevolezza, a un sentire che chiunque condivide: che il presente, quel che oggi esiste, è frutto e sviluppo di quel che è stato, del passato. Del resto, anche chi non si pone affatto il problema della storia e del suo valore, quando vuol spiegarsi  se stesso, il  perché egli è come è, il perché e il come delle sue scelte di vita, ricorre in primo luogo al proprio passato: so bene di essere divenuto quello che sono per effetto, in tanta parte, dell’educazione che ho ricevuto, degli incontri, delle esperienze che ho fatto… 

Chiunque, dicevo. Ma è proprio così? Basta provare a “mettersi in ascolto” dei bambini – non solo di quelli più piccoli, ma anche di ragazzine e ragazzini di 8 o di 10 anni – per rendersi conto di una realtà tutta diversa. Quando mai trovate un bambino che dice, e pensa: io sono così, ho questi gusti, questo carattere, queste attitudini e aspirazioni perché ho ricevuto fin da piccolo un certo tipo di educazione dai genitori, perché in passato mi è accaduto questo o quell’altro, ho guardato a quel certo modello? Non è in questo modo che un bambino ragiona e sente di se stesso. E non è così che si spiega la realtà umana e sociale in cui è immerso. Non sentirete mai un bambino che comprende e valuta caratteri e comportamenti dei suoi compagni di classe in base alle esperienze che essi hanno attraversato e al retroterra familiare e ambientale che hanno alle spalle; come invece fa la maestra – adulta – attenta e consapevole. Un bambino no: non si spiega il presente umano, il proprio e quello degli altri, con il passato che lo precede. Almeno in questo, dunque, il rapporto che il bambino ha con la dimensione del passato è profondamente altro da quello dell’adulto. Per lui non è affatto naturale, ovvio, istintivo – diciamo: per lui sarebbe semmai innaturale – pensare il presente come una conseguenza del passato. 

Non può sfuggire che cosa ciò comporti: che quella che siamo abituati a ritenere la molla essenziale, o la struttura portante, del conoscere storico – del conoscere storico adulto, ormai lo si può ben definire così – per i bambini non esiste.  Per loro semplicemente non ha senso, è incomprensibile, l’idea che la storia serva a capire il presente. Il che, diciamolo subito, non vuol dire affatto che a loro non interessi il rapporto fra passato e presente. 

Tutt’al contrario: il confronto con quel che essi conoscono e vivono oggi è fra quel che più li affascina e li motiva nel guardare  il passato. Ma il confrontare, appunto, il cogliere somiglianze o differenze (“erano come oggi le automobili quando eri bambino, nonno?” “anche i bambini romani giocavano come noi, ma a giochi diversi!”); non il ragionarne in termini di catene di cause e di effetti. Basterebbe questa prima, clamorosa constatazione a rendere evidente quanto diverso debba essere il pensare la storia del bambino da quello dell’adulto. Ma a proseguire l’analisi, altre differenze emergono. Non è di qui che si dovrebbe muovere per impostare l’insegnamento? Di ciò, però, a un prossimo articolo.